TRAMA
1989: nella cittadina di Derry molti bambini scompaiono. Li rapisce e divora il clown Pennywise che, ora, perseguita il club dei Perdenti di cui fa parte Bill, ancora in cerca del fratellino.
RECENSIONI
Dalle fogne al Luna Park
Abortito il disegno di Cary Fukunaga, più disturbante e avulso dalla fonte, l’argentino Andy Muschietti ha l’incarico di tradurre il romanzo “It” (1986) di Stephen King, con i dovuti aggiustamenti (spostamento temporale degli avvenimenti, diverse manifestazioni orrifiche). Il suo è un compromesso fra le intenzioni da horror “adulto” e quelle con accessibilità allargata: anche La Madre era scisso fra inedite propensioni crudeli e diluizione nelle convenzioni. La prima apparizione di Pennywise è da antologia dell’orrore, il clown di Bill Skarsgård non fa rimpiangere il Tim Curry della versione televisiva del 1990: interagisce con sguardo strabico e sorriso affabile solcato da denti da coniglio; poi, inaspettatamente, stacca un braccio e divora il bambino. Un malvagio inquietante, il coraggio della sgradevolezza. A seguire, purtroppo, Muschietti relega il pagliaccio a manichino del tunnel dell’orrore (da citare, però, la sequenza delle diapositive), ma ben restituisce il romanzo di formazione fra amicizia e amore pre-adolescenziale, richiamando, non a caso, il kingiano Stranger Things dei fratelli Duffer, con cui condivide anche l’attore Finn Wolfhard: un nostalgico Stand By Me con il tema (scoperto) della paura che mangia l’anima e della mostruosità che nasce dai vivi. La gradita vena incubale (i bruciati vivi dietro la porta chiusa e la donna del ritratto: non lo “zio tibia” che insegue l’ipocondriaco) abbraccia sempre più l’estetica dell’orrore del Nightmare di Wes Craven, simile (e precedente) a “It” fra mostro soprannaturale che si nutre di incubi, indagine delle giovani vittime sulla sua genesi e creatività delle esternazioni terrificanti. Fino a scivolare, però, nell’accumulo da Luna Park, ovvero nel capitolo 3 di quella saga, I Guerrieri del Sogno, dove la spettacolarità del trucco invadeva le urla della mente. La fusione degli occhi con la fotografia “metallica” di Chung-hoon Chung (Chan-wook Park) li fa chiudere sull’inverosimiglianza di ragazzini che, senza (chiedere) aiuto, si infilano per due volte nell’antro del mostro privi degli strumenti per contrastarlo. Gran successo, presto la seconda parte con i protagonisti adulti.
Parlare di It di Andrés Muschietti significa prima di tutto schivare una serie di trappole esegetiche, di cul del sac al fondo dei quali ci si imbatte inevitabilmente in semplificazioni e banalizzazioni. Il primo tra questi è il confronto con la miniserie televisiva del 1990 diretta da Tomas Wallace che ha ricoperto un ruolo di primo piano (traumi compresi) nell'immaginario di coloro nati tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta. In particolare, la celeberrima figura del clown interpretata da Tim Curry è diventata negli anni un'icona dello spavento universale, pesando inevitabilmente sulla valutazione del film del 2017. In questa sede però è dell'altro tranello interpretativo che ci si vuole occupare, ovvero del confronto inevitabile con il capolavoro di Stephen King. Si tratta di una questione insidiosa e non a caso abbiamo usato il termine trappola: non sono poche infatti le letture approssimative che hanno scelto di percorrere proprio questa strada, rimanendo però ferme allo stadio del giudizio impressionista al quale viene solitamente affiancata la semplice constatazione della diversità tra la materia letteraria e quella cinematografica (se il giudizio è negativo) o quella dell'impossibilità della trasposizione (se il parere sul film è positivo). Cercando di evitare un confronto meramente pretestuoso e conclusioni per questo inevitabilmente superficiali, va detto però che dal punto di vista critico affrontare la questione dell'adattamento è un'operazione necessaria quando si ragiona su un film tratto da un volume così imponente e culturalmente rilevante. Quello della fedeltà del plot è falso problema: un ottimo adattamento non ha per forza bisogno di ricalcare pedissequamente gli avvenimenti presenti nell'opera letteraria da cui prende le mosse. Molto più importante è invece individuare il senso profondo del lavoro rilanciando con un altro linguaggio, quello audiovisivo, il cuore pulsante del romanzo, ricontestualizzando la storia in un altro medium e di conseguenza operando anche i necessari tagli. Sotto questo punto di vista il film di Muschietti (e in generale l'intero progetto) in un certo senso sembra partire con l'handicap (per usare un'espressione cara ai bookmaker) ancor prima di essere girato, montato e distribuito. Confrontarsi con It di Stephen King e pensare che l'intreccio tra le due temporalità su cui si dispiega la narrazione – fine degli anni Cinquanta e metà degli Ottanta – sia una componente accessoria è un approccio decisamente pericoloso. La scelta di dividere l'adattamento in due lungometraggi contenenti in maniera monolitica i due piani temporali del racconto annulla interamente il senso del movimento di va' e vieni operato da King. Lo specchiarsi tra i ragazzini e le versioni adulte di loro stessi costituisce parte essenziale del senso profondo del romanzo, che in questo caso viene sistematicamente tradito. La scelta è quella di andare in un'altra direzione e solo una volta visto il secondo film sarà possibile farsi un'idea compiuta sugli esiti di questa brutale separazione, ma per adesso possiamo affermare che si tratta di un cambiamento estremamente semplificante, che tra le altre cose elimina anche tutti gli interludi che nel romanzo fanno da collante tra le due linee temporali, ponendo la città di Derry come il vero protagonista dell'opera. Va detto che l'assenza degli interludi anche nella miniserie televisiva del 1990 denota un'oggettiva difficoltà ad adattarli in forma audiovisiva, tuttavia, vista la loro enorme importanza, da un adattamento ambizioso è lecito aspettarsi almeno un tentativo.
Nel processo di trasposizione un altro fattore essenziale, tanto da far da ponte tra i personaggi bambini e quelli in età adulta, è rappresentato dal ruolo della fantasia. Le numerose pagine di Stephen King sono spesso impiegate per caratterizzare nei dettagli il Club dei Perdenti, mettendo in evidenza quanto ciò che li rende dei freak coincida anche quello che, una volta divenuti un gruppo compatto e solidale, li distingue dagli altri, rappresentando per ciascuno un marchio indistinguibile. Senza analizzare in che misura questa questione sia fondamentale nel gioco di specchi tra le due linee temporali (vista la radicale scelta del film, sarebbe un discorso poco pertinente) va però detto che il lavoro di Muschietti e degli sceneggiatori che hanno lavorato al lungometraggio perde per strada la gran parte di questa riflessione sul soprannaturale e sulla meraviglia, livellando il tutto al rango di un semplice horror con ragazzini protagonisti. In questo modo vengono meno gli oggetti iconici che caratterizzavano i protagonisti come l'inalatore di Ed e la bicicletta di Bill (presenti ma quasi completamente svuotati), così come si perde la tensione sessuale innescata dalla presenza di Beverly e le pulsioni erotiche che ne conseguono (e in questo senso è quasi naturale l'eliminazione della scena dell'orgia, una delle più significative e famose del libro). La scelta poi di spostare la narrazione dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta risulta abbastanza inspiegabile in quanto così facendo scompaiono le essenziali tensioni sociali e razziali che caratterizzavano il New England in quegli anni, mascherate dal perbenismo di facciata dell'America del boom economico. Il contesto eighties inoltre rende ancora più impietoso il confronto con Stranger Things, creatura seriale partorita dai giovanissimi fratelli Duffer, che più di tutti è riuscita a trasferire in immagini in movimento il senso profondo dell'opera di King, pur non essendone dichiaratamente l'adattamento. Per quanto l'affermazione “era meglio il libro” sia oggi tristemente utilizzata come emblema di una critica scentrata e incapace di andare a fondo nei codici specifici del linguaggio cinematografico, allo stesso modo un completo disinteresse per la relazione tra un film come It e il romanzo omonimo da cui prende le mosse risulta altrettanto miope. Ad una prima analisi (una più approfondita avrebbe bisogno di uno spazio ben più ampio di quello di una recensione) dell'adattamento di Muschietti emerge che i numerosi tagli effettuati hanno privato il racconto di alcuni elementi essenziali andando a compromettere il senso profondo dell'opera. Inoltre, l'abbandono di quell'atmosfera di condanna e oppressione che caratterizzava la città di Derry, andando a influenzare le caratterizzazioni tanto dei protagonisti quanto dei villain com Henry Bowers e la sua banda (qui ridotti a semplici bulli della scuola), non è stato compensato dalla voglia di raccontare realmente qualcosa di nuovo e personale. Infine, il discorso sulla paura, che originariamente era l'esito di angosce giovanili legate alle traumatiche esperienze familiari di ciascuno, risulta totalmente mortificato finendo per essere niente di più che una sterile ricerca dello spavento dello spettatore.