TRAMA
Isabelle è un’astronoma di origini francesi, vive in Italia in una grande casa immersa tra i vigneti sulle colline nei pressi di Trieste. Il sole splende sulla campagna, il mare a pochi chilometri si infrange sulla costa rocciosa, il paesaggio è un paradiso e come tutte le estati suo figlio Jérôme passerà qualche tempo con lei. Isabelle lo ama molto, è pronta a fare qualsiasi cosa per lui, ma l’incontro con Davide, un giovane che sta attraversando un momento di grande difficoltà, stravolgerà le loro vite.
RECENSIONI
Dietro la grata della sua drammaturgia ragionata e scritta, quello di Mirko Locatelli rimane un cinema di osservazione e di attesa, un cinema che, proprio per la radicalità di questa scelta, poggia su equilibri delicatissimi. L’intento di non adulterare la messa in scena - con un pensiero riconoscibile, con un punto di vista orientato - suona facilmente equivocabile: l’operazione è, infatti, talmente sottile da rendersi possibilmente impercettibile, ancor di più in un’epoca in cui persino tanto cinema documentario sceglie di non mimetizzare la macchina da presa, ma, al contrario, di condurre il suo lavoro di testimonianza su territori in cui diventa difficile separare il reale dalla sua sofisticazione. Isabelle, da oggetto depurato dal giudizio quale vuol essere, diventa un film meravigliosamente fuorviante perché ostenta un approccio naturalista che si colloca fuori dalle logiche abusate di quello che viene di prassi considerato in Italia un film realista, un’opera che per questo finisce, nella migliore delle ipotesi, con lo sconcertare.
Il concetto di realtà con cui Locatelli si confronta va oltre il dramma finzionale che si mette in scena: investe il set, gli stati d’animo di chi lo anima davanti e dietro la macchina da presa: anche quello, che lo si avverta o meno, entra nel film. Così, in Isabelle, la struttura cronologica evidente, letteraria (i capitoli contrassegnati dai mesi che passano) e la rigorosa scrittura (che, dunque, non ha paura di mostrarsi) si nutrono di sensazioni vibranti, estemporanee.
Lo stesso stile delle riprese, i piani sequenza, l’evitare accorto delle frammentazioni delle scene, mira a osservare i personaggi come figure teatrali che si muovono nello spazio, figure che cadono sotto un occhio quasi documentaristico. E Isabelle/ Ariane Ascaride interpreta il ruolo di una donna costretta a recitare, un’attrice che fa l’attrice, che mette in scena una performance classica in un contesto naturalistico che sembra rigettarla.
Come in I corpi estranei, in Isabelle non si sottolinea nulla, non si enfatizza il dramma, non si forniscono chiavi di lettura che possano aiutare lo spettatore a decifrare l’enigma che celano i personaggi: questi ultimi non si svelano, mostrano solo il lato che vediamo, il resto va intuito, previsto, ipotizzato. Abbiamo quindi una mera constatazione dei fatti e del comportamento di Isabelle, che è il fulcro attorno al quale ruota l’intera storia: non ci viene detto in che modo la donna stia elaborando la responsabilità che pesa su di lei e il figlio. Quest’ultimo se manifesta uno squilibrio, una frattura che lo porta a tormentarsi e a esprimere dubbi, si confronta con il muro di rassicurazioni che è la madre, un muro tanto fermo quanto impenetrabile. Quella di Isabelle è una maschera forzata che non sappiamo cosa celi, un travestimento che non sappiamo quanto le pesi indossare. Perché nonostante la gravità di quanto accaduto, la donna continua a comportarsi come se nulla fosse, a guardare avanti, a fare progetti per un futuro che non vuole mettere in alcun modo in discussione (le piante da potare a settembre - siamo a giugno -), anche se le paranoie e i dubbi del figlio chiariscono in modo ineluttabile quella che è la realtà: l’intera esistenza dei due si ripiega su quell’episodio, l’incidente è una macchia che non verrà mai cancellata e che li condizionerà sempre. Isabelle, di fronte a questa ferita che non si rimarginerà, ha chiaramente deciso di resistere. Ma quella che ostenta è una forza vacillante, che non le risparmia crolli.
Lo spettatore ha solo ipotesi, dunque: constata come Isabelle avvicini il ragazzo coinvolto nell’incidente che ha provocato la morte della sorella, come lo assista e lo aiuti. Fin dalla prima scena, anche se ce ne rendiamo conto solo in seguito, vediamo che lo sta pedinando. Un pensiero lavora dentro di lei, ma in quale modo è lo spettatore a supporlo.
Cosa c’è dietro questo avvicinamento? Il senso di colpa? La volontà cinica ed egoista di carpire informazioni e controllare come evolvono le indagini? Una pulsione sessuale? Il film a quel punto si sposta tutto sull’analisi del rapporto tra i due: tra la giovinezza che provoca (il corpo presente, esibito, carnale di Davide) e l’accettazione delle lusinghe (la verbalità di lei). In questo magma di pura esteriorità non resta che osservare e immaginare cosa si stia agitando sotto quella superficie. Così la reazione finale di Davide: è la fine violenta del gioco di tensione sessuale tra i due? È la punizione che il giovane, consapevole del ruolo della donna nell’incidente, vuole impartire con il simbolico ribaltamento dei ruoli di carnefice e vittima?
Locatelli cita il teatro borghese di Augier e Dumas, pièce ambigue in cui personaggi che lottano contro se stessi mettono in discussione il loro sistema di valori una volta che questo entra in crisi: a me viene in mente anche Claude Chabrol, un regista che ha sempre ritratto la borghesia e le subdole strategie che questa mette in campo per preservare le sue certezze e rendersi immune dagli attacchi al suo quieto, comodo vivere. E che ha presentato spesso figure fortemente scisse tra il tormento e la risoluzione ferma di non recedere di un solo passo, tra la debolezza e l’intento di non abbattersi e non lasciare che il proprio mondo venga messo in discussione. Caratteri animati da un’idea di giustizia che non superano l’esame quando emergono, ineludibili, le proprie, gravi responsabilità.
Così Isabelle si dimostra film lucido e spietato che risponde a un’idea di cinema volta a ricomporre una realtà da sondare attraverso elementi semplici e diretti, che restituisce un mondo che cela nervature, pensieri e sentimenti occulti. E che in questo caso esplora un’ipotesi limite che mette in evidenza come siamo ciò che siamo solo fino a quando un evento traumatico non pone in discussione le nostre certezze. A quel punto l’onestà e il senso civile potrebbero sgretolarsi e la rispettabilità diventare una maschera ipocrita dietro la quale nascondere la propria impossibilità di fronteggiare le insidie a uno status che si considera irrinunciabile.