
TRAMA
Roma. Numa Tempesta vive in un hotel di lusso tutto per sé, imprenditore ricchissimo, volgare, egoista, solo. Condannato per frode fiscale, riesce a evitare la galera ma è costretto a sorbirsi un anno di servizi sociali in una struttura che si occupa di poveri e barboni. Lì, però, a contatto con un’umanità apparentemente lontanissima da lui, le cose prenderanno una piega inaspettata (per tutti) sotto il segno e il profumo dei soldi.
RECENSIONI
È sempre stato un regista intelligente, appassionato di reale, Daniele Luchetti, non sempre sottile, non sempre efficace, ma con una spiccata attitudine a travasare attualità e cronaca, schegge di storia italiana fra sentimenti pubblici e privati in una forma non scontata e personale di racconto popolare. Il portaborse intercettava presente e pezzi di futuro prossimo ma anche più lontano; La scuola - a rivederla oggi - fa più tenerezza dei suoi stessi personaggi, film fuori dal tempo già allora per certi versi, e non per ingenuità del suo autore; I piccoli maestri in guerra restano un buon esempio di un bel cinema italiano anni Novanta; Mio fratello è figlio unico e Anni felici sono tra i suoi affreschi più riusciti, emotivamente più liberi, intervallati dalla Nostra vita, meno fragile ma più debole. Io sono Tempesta vuole essere una scommessa. E già, magari, a partire dalla diversa materialità narrativa dei due cosceneggiatori scelti, Giulia Calenda e (come sempre, o quasi, al fianco del regista) Sandro Petraglia, ossia due Italie non proprio coincidenti, ma riunitesi anni fa col regista intorno a uno spunto offerto dalle vicende giudiziarie di Berlusconi, in particolare la condanna che ha costretto l’ex premier ai servizi sociali assistendo gli anziani ospiti di una casa di cura. Uno spunto, nulla di più, assicura Luchetti, perché «questo film ambisce ad essere una farsa sociale, un'opera buffa. Lontana dai fatti di cronaca e dal dovere di essere verosimile, aspira a raccontare sorridendo e con un tono di fiaba una fetta di Italia che il nostro cinema affronta sempre con dolore, con un tono serio o serioso […]. Ho cercato allora di riflettere su cosa sarebbe accaduto se mi fossi messo allo stesso livello dello sguardo degli ultimi, guardando tutti i personaggi senza giudicarli o compatirli. Questa mi sembrava la mia novità: poter prendere in giro certi personaggi, poterci scherzare perché non ti senti superiore a loro».
E così, la bravura scafata di Marco Giallini ed Elio Germano (il ricco e il povero) e l’anomalia abilmente normalizzata di Eleonora Danco (responsabile del centro per gli indigenti, animata da fervore religioso a trazione, però, comunista) rendono certamente più facile il gioco delle parti, dei ruoli e delle psicologie date, la mescolanza con non- e neoattori (fra le "radiose", le tre giovani escort con il pallino della psicologia ma che non riescono a dare sesso al nostro Numa, c’è anche Simonetta Columbu, figlia di Giovanni, che l’ha diretta in Surbiles). Io sono Tempesta prende dunque dei mondi paralleli e li mette in collisione, livella gli opportunismi e le furbizie, e non ci sono classi sociali e culture che si astengano. Non ci sono buoni e non ci sono cattivi qui, è uno stato delle cose che danza su se stesso in un neorealismo dopato e faceto, simpatico, senza che però né il comico né - dall'altra parte - il malinconico riescano a sfondare, a farsi testa d’ariete, maschera espressiva totalizzante. Un girotondo di brutti e sporchi senza ferocia ma neanche candore; il ritratto di un super ricco che forse è diventato così perché il padre gli ripeteva in loop - e continua ancora oggi a definirlo - “coglione!”, come è successo d'altronde ai peggiori tiranni, sprovvisti però del buon cuore - ma già lo sapevamo - di Numa. In una Roma ancora più Roma di quanto già tragicomicamente non sia (inizialmente si era pensato a Milano: forse per aggiornare Vittorio De Sica?), e in un Kazakistan come nuova terra promessa di paradisi immobiliari, la banda di straccioni capitanati da Numa si muove per le strade tra I soliti ignoti, con un “nuovo Capannelle” come jolly, e perfino Shining nell’albergo extralusso, territorio sconfinato per la sconfinata solitudine di Numa, tra l’idromassaggio in terrazza e i flipper in riga, i tavoli apparecchiati per gente che mai verrà e la piscina che delizierà i poveri. Dal centro di accoglienza alla sala di gioco d’azzardo il passo sarà breve, i capovolgimenti pure, ma il cosa e il come delle storia ancor di più, in una scrittura filmica confusa e abbastanza lacunosa, che - soprattutto - non riesce a possedere l’ambiguità perfida e la cattiveria liberatoria che anche una «fiaba» può effondere, opera orfana di un punto di vista forte, di uno sguardo politico, anche soavemente beffardo, sulle sue creature. Restano i mattatori ma non c’è Monicelli, non possono esserci mostri, al massimo caimani formato rionale, un cinismo rassicurante, un grottesco gluten free. E alla fine i poveri di Io sono Tempesta sono più fortunati della Fortunata di Castellitto, ma il cinema sembra simmetricamente lo stesso.
