Drammatico

IO NON HO PAURA

TRAMA

Un ragazzino trova, nascosto in un buco scavato nelle campagne lucane, un coetaneo affamato. Quale mostro può averlo rinchiuso nel ventre della terra?

RECENSIONI

Dal bel romanzo di Niccolò Ammaniti, autore anche della sceneggiatura, Salvatores realizza il suo primo grande film, intenso, compatto, commovente. Se nelle ultime opere aveva cercato, coraggiosamente ma con esiti discutibili, di percorrere strade inconsuete nel cinema italiano contemporaneo, con "Io non ho paura" ritorna al cinema narrativo puro, lineare, mescolando realismo e lirismo, realtà e trasfigurazione, strano e meraviglioso. Adottando truffautianamente il punto di vista del bambino protagonista, ci conduce, accarezzando le vaste e magnifiche distese di campi di grano, in un mondo fiabesco violentato dalla mostruosa ed annichilente crudeltà degli adulti. Tra il mondo degli adulti e quello dei bambini non c'è legame, scambio, dialogo, non c'è concordia discors: il primo è ombra, violenza, sangue, spazi chiusi; il secondo è luce, agonismo, gioco, spazi aperti. Michele, il piccolo protagonista, plasma il suo microcosmo attraverso le sue emozioni, percepisce la realtà attraverso il racconto che si fa di essa, interpreta l'inspiegabile, il "fantastico" (inteso todorovianamente come il momento del dubbio, dell'attesa di una soluzione che illumini l'oscurità) non seguendo i principi della logica razionale ma attingendo a piene mani dal mondo per antonomasia dell'irrazionale: quello delle favole. Solo con la rilettura del reale o la ricerca (Nietzsche diceva che l'angoscia non ti blocca, ti fa cercare) il bambino esorcizza la paura e placa l'angoscia, ripetendo tra sé e sé "io sono una lucertola che può camminare." quando, per penitenza, deve camminare sull'asse sospeso per aria nella casa abbandonata, oppure rielaborando i dati reali in una sorta di limpido poema in prosa che possa spiegare l'inspiegabile prigionia del bambino ("C'era una volta un uomo aveva due figli, uno di essi era pazzo e decise di rinchiuderlo sotto terra.") o ancora recitando una filastrocca presa dal "Sogno di una notte di mezza estate" di Shakespeare (scelta azzeccata dell'autore di un "sogno" del 1983) quando deve, di notte, correre verso la stalla dove è rinchiuso Filippo, il bambino rapito. Quest'ultimo, a sua volta, supererà il trauma del rapimento e della separazione dalla madre e dal padre dialogando con gli orsetti lavatori e ripetendosi "Io sono morto", quasi ricercando l'annullamento e vedendo nella propria morte l'unica spiegazione che possa allontanare l'idea di essere stato abbandonato dai genitori. Il testo ha la struttura di una fiaba, quella descritta da Propp - il soggetto (Michele), l'oggetto-valore (Filippo), l'adiuvante che può diventare opponente (l'amico delatore), gli opponenti (gli adulti "tout court") - con tuttavia una differenza fondamentale: l'oggetto viene trovato casualmente, non viene cercato. Il rapporto tra Michele e Filippo, inizialmente un Lazzaro/ragazzo selvaggio, forse pazzo, un "altro" da sé di cui diffidare ed avere timore, poi un doppio, un coetaneo, è il fulcro dell'intero racconto, quasi un conflitto che si risolve positivamente (i due ragazzi diventeranno amici) interno ad uno più vasto contrasto (mondo degli adulti/mondo dei bambini) che invece sarà superato solo grazie all'intervento esterno di un provvidenziale "deus ex machina" (l'elicottero dei carabinieri). La scelta di mostrare il mondo attraverso gli occhi di un bambino obbliga il regista a porre la macchina da presa alla sua altezza, a farle sfiorare le spighe di grano. Tuttavia l'aderenza al suo sguardo non si limita a questo, è profonda ed autentica, non è solo "occhio" ma anche "mente", un punto di vista cognitivo oltre che percettivo. I modelli cinematografici e letterari sono chiari: "La morte corre sul fiume" di Laughton, "La finestra socchiusa" di Tetzlaff, "Stand by me" di Reiner, Twain, King e così via. Per una volta la mobilità della cinepresa è funzionale al racconto così come la scelta di accentuare il giallo accecante dei campi (col rischio di scadere nello stile da cartolina stile "Pasta Barilla") ha come fine quello di rendere più flagrante il contrasto con l'oscurità del luogo in cui è rinchiuso Filippo. I ragazzini sono tutti bravissimi e gli attori adulti aderenti ai ruoli (su tutti primeggia Abatantuono, "uomo nero" perfetto ed agghiacciante). Una autentica sorpresa.

Fuori dal tempo (labilmente identificato da eterogenee schegge musicali), lontano dal mondo (a malapena un’immagine televisiva a bassa definizione, una foto sbiadita), in un borgo che pare sorto direttamente dagli abissi terrestri e destinato a tornarvi presto (gli edifici a metà strada fra il cantiere e la maceria), Salvatores cesella una fiaba sul tema della riconciliazione interiore. A un piano superficiale, imbevuto di una luce che ferisce la vista e ottunde gli altri sensi, si contrappone un livello profondo e nascosto, accessibile a chi osi spingere lo sguardo (la ricerca degli occhiali) oltre i limiti dettati dall’abitudine. Le tenebre del pozzo (in cui viene immersa un’acquatica luna) saranno illuminanti per il giovane Michele, che si confronterà direttamente con la metà di sé (Filippo) che non voleva o non sapeva riconoscere e, al tempo stesso, aprirà gli occhi sui nodi irrisolti della trama esistenziale tessuta davanti ai suoi occhi dai genitori. La figura infantile sdoppiata si riconosce negli elementi complementari, il rovesciamento dei ruoli (Michele diventa Filippo per favorire la fuga dell’amico) conduce al contatto finale, alla fusione ideale e angelica che conclude simbolicamente il percorso in una memoria occulta(ta) e apre un varco nella rete di filo spinato che rischia di stritolare la vita del ragazzo: il desiderio della madre di Michele è, almeno in potenza, esaudito. Anche IO NON HO PAURA è un’opera doppia, incerta com’è fra una convenzionale commedia drammatica e un teso, sconvolgente e a tratti geniale horror di formazione. Un prologo e un epilogo di grande impatto (il movimento ascensionale che inaugura il racconto, la ferita lancinante del prefinale) racchiudono un film in cui si uniscono, senza fondersi, atroci giochi infantili e violente dispute adulte, annotazioni crudeli (le dinamiche del branco) e trovate di antiquato conio (la “prova del soldato”), ineffabili silenzi e battute telefonatissime, interpretazioni magiche (il cast minorenne) e “prove d’attore” da rimuovere alla svelta (un gigionesco Abatantuono), lampi espressionisti e fiacchezze naturalistiche, immagini dal sapore arcaico (onore e gloria, ora e sempre, allo scultore di luci Italo Petriccione) e non indispensabili nenie post-barocche, ardite sperimentazioni visive (alla DENTI) e schemi narrativi troppo usuali per non suonare usurati. C’è molto, forse troppo, e non tutto va nella direzione giusta: il bersaglio non è centrato, ma ci sono frammenti di autentica poesia (la prima apparizione di Filippo).

Il film è fedele al bel romanzo di Ammaniti, il che non è detto sia un pregio “in sé”, ma è anche un film irrisolto e per molti versi deludente, a cominciare dai suoi piccoli protagonisti che sono lungi dall’essere definibili “promettenti attori in erba”. Il che costituisce un difetto assolutamente non trascurabile. Se infatti la sceneggiatura (dello stesso Ammaniti) è davvero ben scritta e maneggia l’elemento infanzia con rara e veritiera sensibilità, le scarse doti recitative degli “attori” che interpretano Michele, Filippo e compagnia giovane finiscono per vanificare, in gran parte, la potenziale efficacia di uno script che per quanto buono non può bastare a se stesso. I (molti) momenti di forte impatto drammatico/emotivo/poetico sono così stemperati e a volte mortificati da una recitazione volenterosa ma approssimativa e il film finisce per lottare disperatamente alla ricerca di un’Anima e di un Cuore che non trova mai, questo “grazie” anche alla consueta freddezza di Gabriele Salvatores che si conferma ottimo tecnico in fisiologica/patologica crisi di identità autoriale. Una volta lontano dal consueto tema della fuga, il regista perde infatti riconoscibilità (limitata all’impiego di attori-feticcio) e si distingue solo per un’indubbia padronanza del mezzo che comunque non assurge mai allo status di stile definito e definibile. Io non ho paura è dunque il classico film “ben girato” e poco più, che nella fattispecie si concede troppe digressioni paesaggistiche cartolino-barillesche, ma che ha comunque il merito di non sconfinare mai in quel grossolano e vuoto virtuosismo a base di dolly, carrelli e “visioni” che aveva ammorbato un film bruttissimo come Denti, l’altro corpo estraneo nel sostanzialmente coerente (fino alla ripetitività) Corpus filmico di Slavatores. Male Abatantuono, visibilmente a disagio nel ruolo di cattivo viscido e ambiguo che forza e infrange i suoi limiti di antipaticone scorbutico dal cuore d’oro; malino il finale, una delle poche “licenze cinematografiche” che il film si concede rispetto alla fonte romanzesca nella quale si manteneva un minimo di apertura/sospensione/mistero in più.