TRAMA
Compagno di una vedova con due figli, Subu si mantiene girando film porno che vende clandestinamente. Il figlioccio è un viziato che pensa solo ai soldi, sua sorella, quindicenne, è attraente ma Subu è molto innamorato della compagna.
RECENSIONI
Dopo l’entomologia (Cronache Entomologiche del Giappone, 1963), ecco l’antropologia, con il titolo italiano che omette la prima parte del titolo internazionale: “Il pornografo”. Dallo sfruttamento della prostituzione, centrale nel film precedente, allo sfruttamento del sesso come voyeurismo e palliativo della (a vario titolo) impotenza: siamo nel 1966 e un soggetto di questo tipo era a dir poco originale e azzardato. Come sovente, purtroppo, Imamura predilige, all’inizio, una drammaturgia contorta, caotica e snervante, accentuata dalla predilezione per riprese da lontano o claustrofobiche, ricche di ombre che mal identificano il carattere in campo, mentre gli interpreti parlano in continuazione a scapito della figuratività o del lirismo. Poi, come sempre, l’autore ripaga enormemente con scene disturbanti e potentissime (da citare: quella teatrale/surreale, prima al buio poi sovraesposta, con la donna incinta e in lingerie in arrivo dal corridoio; quella in cui la donna si denuda alla finestra; quella dell’orgia in casa con decine di corpi e musica ansimante), mentre il racconto prende pieghe inaspettate e la sua morale, che si credeva di aver compreso (e già non era semplicistica), viene (presumibilmente) ribaltata. Il pornografo protagonista non è, a un primo sguardo, una figura negativa: come afferma lui stesso, compie un’attività sociale, ricettacolo dei veri bisogni dell’essere umano (“Il mio non è un lavoro sporco, lo faccio seriamente. (…) Mi affascina il pathos degli uomini”). Ha, come collaboratore, un “moralista” che fa da contraddittorio ed è evidente l’ambizione di Imamura di redigere un trattato lucido, grottesco e pessimista sulla Vita, sul rapporto uomo/donna. Pare dirci che è ipocrita deprecare una professione su cui campano desideri e borsellini di molti; oppure che è semplicemente avido quel mondo che sfrutta il sesso per poi condannarlo. Ma la parte finale, con una sorta di evoluzione del protagonista, apre una finestra su altri volti della problematica: Subu, infatti, crede prima di trovare nelle orge la strada per la libertà (il moralista controbatte: “È solo prostituzione di massa”), poi ha la delirante idea di una bambola meccanica, con cui anela a liberarsi per sempre della dipendenza dal femminile (che identifica, quindi, solo in uno strumento sessuale). Capiamo che è diventato pornografo per supplire alla propria impotenza e il suo iter è decisamente poco salvifico. D’altro canto, e forse è ciò che si merita, diventa anche lui il soggetto di un film, una “merce” visiva che rende tutti noi voyeur condannabili.