Drammatico, Recensione

INTO THE WILD

Titolo OriginaleInto The Wild
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2007
Durata140'
Sceneggiatura
Tratto dadal romanzo di Jon Krakauer
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Il viaggio alla ricerca di sé di un ragazzo appena diplomato. Direzione, con “biglietto” di sola andata: l’Alaska. Dal romanzo di Jon Krakauer.

RECENSIONI

Visto che l’apparenza mai come in questo caso potrebbe ingannare, precisiamo subito cosa Into the Wild non è.
Non è un ritorno alla natura contro la barbarie della civiltà, anche se avrebbe tutta l’aria di esserlo: il protagonista decide di raggiungere l’Alaska e non Las Vegas o le isole Hawaii.
Non è un omaggio tardivo a zio Rousseau o, più prevedibilmente, alla cultura beat, anche se potrebbe sembrarlo: la presenza di comitive freaks, Thoreau come mentore.
Dunque, cos’è l’opera n. 4,5 di Sean Penn? Piuttosto, la storia di un giovane “arrabbiato” prigioniero della Cultura - il patrimonio di nomi, di frasi, di saperi stratificatisi nella sua memoria di studente modello, che lo ha reso un pedante citazionista perfettamente in grado di interpretare la realtà (consumismo alienante, dittatura del denaro etc.) ma incapace di viverla – e della Famiglia, della (non) sua famiglia. Scoprendo le sue vere origini, muore una prima volta. La partenza/fuga sarà un’autentica palingenesi ed il viaggio, il suo cammino, sarà scandito nelle tappe tradizionali di “un romanzo di formazione” che coincide col il “romanzo di una vita intera” (dalla nascita alla “saggezza” della vecchiaia).
Sean Penn imbastisce un racconto stratificato che fa della “profonda evidenza” del “messaggio” e dell’ “imperfezione” la sua ragione e la sua forza. Stilisticamente è eterogeneo, proteiforme, quasi “selvaggio” e bicefalo: campi lunghi in un regime di trasparenza (spinta “classicizzante”) si alternano ad effetti di montaggio, ralenti, dissolvenze su dissolvenze, accelerazioni improvvise (spinta “modernizzante”). Ed è possibile individuare un legame tra soluzioni formali/”regimi di scrittura” e dinamiche narrative/personaggi(o): il “moderno” (in)forma il resoconto/rilettura di una vita, quella di Chris, in una condizione di solitudine ricercata e forse inevitabile – in voice over: il racconto della sorella, che cerca di comprendere le ragioni del fratello o i pensieri liberi di quest’ultimo, che interloquisce idealmente con lo spettatore quale unico testimone/compagno di viaggio; “classica”, invece, è la forma dello stato opposto del soggetto, ovvero la dimensione relazionale: l’incontro, il dialogo, lo “scambio” con l’altro. Il moderno, dunque, come regime di scrittura/esposizione di sé (dell’autoidentificazione); il classico come regime di scrittura dell’incontro (dell’identificazione dell’altro). E’, infatti, nell’interazione che il protagonista “evolve”, nel mutuo riconoscimento di solitudini che rimodella la sua vita (ogni identificazione dell’altro è una re-identificazione di sé): la coppia di hippies, una diciassettenne, un ambiguo agricoltore, un anziano reduce della guerra di Corea. Ricercando la solitudine, il protagonista, paradossalmente, (ri)scoprirà gli affetti ed al regista è questo aspetto, evidentemente, ad interessare di più: la rinascita del bisogno di vivere per essere percepiti, dal momento che la felicità è una mera illusione se non viene condivisa…
Profondamente umanista, narrativamente “generoso” e visivamente debordante, Into The Wild, ed è un buon segno, dà l’impressione di essere un oggetto fuori moda, finanche superfluo: come il bisogno di fuggire per ritrovar-si nella tarda società dello spettacolo.

Fisicità, vitalismo, verità: sono queste le urgenze interiori di Christopher McCandless (un Emile Hirsch ultrabiologico), ventiduenne che si sveste dell’inessenziale (vale a dire tutto o quasi) per calarsi nei panni pauperistici di Alex Supertramp, routard duro e puro in cerca di esperienze e spazi incorrotti. Alex è uno di quei personaggi naturalmente congeniali a Sean Penn: estremismo morale e fermezza di giudizio fanno di lui uno “sradicato etico” estraneo a una civiltà che puzza di ipocrisia e schifosa prudenza. Tra Sean e Alex c’è un’affinità ontologica che permette al primo di comunicare – tramite l’omonimo romanzo di Jon Kracauer – con la sensibilità del secondo, di comprendere chiaramente le sue motivazioni, di entrare nelle pieghe più nascoste del suo sentire. È la stessa brama di verità, lo stesso disprezzo per la teatralità delle istituzioni, la stessa intransigenza morale a infiammarli, a spingerli all’azione. La medesima esigenza di dare corpo alle proprie convinzioni, di scaraventarle nella realtà come sassi nello stagno. Non è soltanto desiderio di avventura, è responsabilità, filosofia di vita, cinema. E fin dal suo folgorante esordio dietro la cinepresa, Sean Penn ha abbracciato un cinema fisico, vitalistico, strenuamente autentico: fughe irrequiete e famiglie dilaniate da schegge impazzite (The Indian Runner), ansie vendicative e divoranti sensi di colpa (The Crossing Guard), cocenti ossessioni di giustizia e affetti che crollano/rifioriscono luminosamente (La promessa, 11 settembre 2001). Un cinema con molti padri (Cassavetes e Malick su tutti) ma ormai perfettamente in grado di camminare da solo verso le terre selvagge. Proseguendo l’inarrestabile corsa del messaggero indiano, Into the Wild ci mette di nuovo di fronte alla ebete inessenzialità delle esperienze preconfezionate e alla bruciante necessità di ritrovare il senso autentico delle cose (“chiamare le cose con il loro vero nome”). Fisicità, vitalismo e verità che si condensano in immagini grazie a una messa in scena più straripante che mai: giunto alla sua quinta regia, Sean Penn abbandona ogni residuo di classicità e/o “neohollywoodianità” per comporre una sinfonia visiva di scrosciante, tumultuoso naturalismo. Camera a mano aderentissima, roventi split-screen, ralenti da far male, carrellate aeree da schizzare in cielo: una trasfigurazione della natura così integrale e musicale (la cangiante fotografia di Eric Gautier e la struggente soundtrack di Michael Brook, Kaki King e Eddie Vedder indubbiamente fanno la loro parte) da lasciare a bocca aperta per originalità e maturità. Un vero e proprio cantico cinematografico che segue il palpitante vagabondaggio di Alex tra assolati campi di grano e variopinti accampamenti freak, tra uomini indomabili e vulnerabili vecchietti, fino a raccogliere l’ultimo respiro del ritrovato Christopher in una volteggiante ascesa che è estremo inneggiare alla grandiosità dell’esistente. È una verità incontrovertibile: il cinema di Sean Penn ci parla di responsabilità senza indottrinare (micidiale la stoccata alla retorica interventista di George Bush ai tempi della Guerra del Golfo) e somiglia fisicamente, vitalisticamente soltanto a se stesso. Vietato parlare di Herzog.

NB- Altro aspetto che a prima vista può sfuggire e che invece dal punto di vista estetico ha un'importanza capitale è che, analogamente alla letale letterarizzazione della natura (ovvero a quella stortura che conduce alla reificazione dell'energia vitale in cultura, inchiostro, morte), la cristallizzazione della natura in immaginario cinematografico è altrettanto perniciosa. Perciò Penn rifiuta ogni misura cinematografica convenzionale: l'irruenza, il disordine e l'impetuosità del suo stile intendono suggerire, per via di irrequietezza, quella vitalità che ogni rappresentazione della natura, in misura minore o maggiore, è fatalmente destinata a vanificare. In questo senso mi spingerei addirittura a dire che Into the Wild è un film furiosamente anticinematografico: lacera il cinema per aderire il più possibile allo spirito di ciò che rappresenta.

Tre momenti racchiudono tutta la forza e lo spirito di Into the Wild, di Sean Penn. Nella scena della super-apple, Hirsch/McCandless/Supertramp gioca con la mela come in un video amatoriale, per poi tuffare testa e sguardo nella macchina da presa, rompendo la finzione rappresentativa. Lo scatto cazzone di Hirsch, probabilmente destinato alla pattumiera o a qualche ammiccante "contenuto extra" del dvd, diventa invece sostanza filmica a pieno titolo e quel tuffo trafigge quasi quanto lo sguardo in macchina, improvviso, bellissimo e doloroso di Clotilde Hesme nell'ultimo film di Garrel. Con una scelta vitale e gioiosa (la scena ci dice più di ogni altra, forse, della pulsante energia vitale che dà senso alle scelte di Alexander Supertramp - ed Hirsch è Supertramp), Penn sfancula il concetto di rappresentazione, sfiducia le convenzioni che governano l'approccio classico della fiction, dà allegramente fuoco a un dispositivo inadatto a registrare l'urgenza non negoziabile della sua verità. Il tuffo in macchina di Hirsch è pura ebbrezza e sintesi di un lavorìo stilistico generoso, impetuoso, sincero e personalissimo che fa della pellicola e della rappresentazione cinematografica un oggetto da erodere, divellere, domare e trasformare. Il miscuglio concitato di sguardi classicissimi e sincopi e fibrillazioni e invenzioni alla ricerca di se stesse sono la cifra stilistica di un non-cinema che cerca la pura trasparenza. La trasparenza della sua propria verità. La verità è la forma dell'opera. E il percorso di McCandless è anche quello di un cinema che muore, rinasce e rimuore in perfetta simbiosi con la sua verità. Proprio come Supertramp, che scopre la sua verità (e, per lui, la verità di ogni uomo) nell'incontaminata natura.
In una delle scene più toccanti degli ultimi tempi, un vecchietto si aggrappa, anima e corpo, alla voce di un'invisibile interlocutrice a cui chiede un'altra possibilità di rapporto, dall'altra parte del telefono. Una distanza che rende ogni sforzo espressivo impotente. Con semplicità disarmante (e, ancora una volta, dal sapore quasi casuale e amatoriale), Hirsch/Supertramp corrobora la sua idea rivoluzionaria. La sua ribellione non è solo contro la corrotta società occidentale. Non soltanto contro genitori e politici, come blatera con irresistibile e contagiosa energia cazzona seduto al tavolo con un magnifico Vince Vaughn. La sua è una fuga dall'organizzazione dei rapporti umani. La sua è una fuga dai rapporti interpersonali. L'attaccamento genera sofferenza. A poco serve quella specie di epifania finale, secondo cui la felicità è tale solo se condivisa. Non c'è nessun rimpianto, nè pessimismo, nella morte di Hirsch/McCandless. Ogni legame, per quanto splendido, è di per sè un'insostenibile sconfitta.
E, infatti, c'è un incredibile sorriso sul volto del Supertramp morente. E il suo ultimo respiro si fonde, in una danza vorticosa che riconcilia natura morente e natura sempre e inevitabilmente viva, nello spazio sconfinato del suo Nord. Il contrappunto naturale è, nel film di Penn, quasi inclassificabile. Non c'è traccia di alcun prometeismo nel rapporto tra McCandless e la Natura; nè di quella complessa sintonia empatica che, nel bellissimo Jesse James di Dominik, rendeva la Natura della sostanza dei sentimenti umani; nè, ancora, di quell'energica, scarnificata, dialettica calvinista che è invece l'anima stessa del possente There Will be Blood di Paul Thomas Anderson. In Into the Wild, vita e natura sono una cosa sola e non c'è spazio per nessuna sostituzione simbolica. Non c'è nessun "lavoro", nessuna produzione strutturale nè tantomeno sovrastrutturale nella dialettica tra Alex e la Natura. Le sovrastrutture della società sono le prime a essere sbrindellate; poi la struttura stessa, però, dei rapporti socioeconomici è annientata e portata al grado zero: un fucile, un coltello, la più libera casualità. Just live. Può la rappresentazione registrare questa incontenibile vitalità? No: il cinema stesso è sfiduciato all'istante.
Into the Wild non è retorico. È, semplicemente, sincero. Sincero ottimismo, verità morale, trasparenza disarmante e addirittura dolorosa e trasgressiva. E il cattivo servizio reso dalle retoriche canzoni originali di Eddie Vedder (quelle sì pregne di una intenzionalità, di una voglia di dire, di una - neologismo orripilante - interlocutività che non hanno nulla da spartire col diafano esserci della pellicola), vantate a destra e a manca, è uno dei pochi difetti dell'opera di Penn. Che vanta dei comprimari incredibili; la ragazza più bella del cinema contemporaneo (Kirsten Stewart); e Alexander Supertramp.