TRAMA
Un celebrato ispettore di polizia, inviato in Alaska per indagare sulla morte di una ragazza, è ricattato dall’assassino…
RECENSIONI
La luce caliginosa del sole di mezzanotte addensa ombre sul terzo film di Christopher Nolan. La vertigine di Memento si stempera, senza perdere (troppo) nerbo, nei toni di un racconto classico ma non meno perturbante, marcato da una perfetta, angosciante sovrapponibilità degli opposti e da un gusto hitchcockiano per la tensione narrativa. Come nel film precedente, una ragnatela di indizi accuratamente estorti e falsificati cosparge di ostacoli la lettura delle verità (circa le azioni e le intenzioni) racchiuse nel gran libro del mondo. Immerso senza sosta (o tregua) in una luminosità che denuda impietosa le piaghe più nascoste e purulente dell’animo umano, il film è memorabile soprattutto per la qualità spettrale e livida della messinscena, per il gioco barocco dei riflessi mercuriali (fin dai bellissimi titoli di testa) e della moltiplicazione dei piani scenografici (la baracca sospesa sull’acqua, irta di trappole e agguati che rimandano ai misteri della natura umana), per la recitazione sussurrata e agghiacciante (in senso buono, per una volta) di Pacino (vocalmente magmatico), Williams (una volta tanto perfetto, anziché perfettino) e Swank (intelligente e sobria in una parte ad alto rischio di leziosaggine). Peccato che la sceneggiatura non sia sempre adeguata, e che il finale, nutrito di suggestioni “amletiche”, sembri dovuto a esigenze di edificazione morale.
Dopo l'affascinante labirinto noir di "Following" e il virtuosistico rompicapo di "Memento", il regista Christopher Nolan, alle prese con una grande produzione e tre premi Oscar, delude un po' le aspettative. Non che il film non funzioni, ma opta per scelte tutto sommato facili che lo rendono un thriller senza guizzi. Tolta infatti l'inconsueta ambientazione in Alaska, con il paesaggio che diventa parte integrante del racconto, sono pochi i sussulti provocati da "Imsomnia". La storia comincia nel modo piu' classico, con un delitto e un poliziotto dal torbido passato ingaggiato per risolvere il caso. Poi la trama si fa piu' interessante, ma la scena chiave dell'agguato al capanno e' costruita in modo poco credibile, con tutti i personaggi forzatamente al posto giusto (o sbagliato) per innescare lo stratagemma narrativo in grado di dare respiro al film. Per il resto, nonostante una certa abilita' nel mantenere la tensione, sono troppe le coincidenze e le intuizioni giustificate in modo approssimativo e la conclusione opta per l'inevitabile resa dei conti. La presenza di Al Pacino si rivela presto ingombrante, con mosse, scatti repentini, sguardi, silenzi, ormai marchio di fabbrica della sua recitazione. E' uno dei casi in cui l'attore prevarica il personaggio e, pur donandosi ad esso, finisce con il soffocarlo. Robin Williams, che pare ormai deciso ad abbandonare la commedia, presta la sua maschera di gomma ad un personaggio disturbato e gioca, per una volta, di sottrazione. Quanto a Hilary Swank, meno nota al grande pubblico nonostante l'Oscar per "Boys don't cry", conferisce alla poliziotta in carriera affacciata sul mondo un calibrato equilibrio di grazia e determinazione.