Recensione, Surreale

INLAND EMPIRE

TRAMA

LA STORIA DI UN MISTERO… UN MISTERO DI UN MONDO ALL’INTERNO DI ALTRI MONDI… CHE SI SVELA INTORNO A UNA DONNA… UNA DONNA INNAMORATA E IN PERICOLO

RECENSIONI

INLAND EMPIRE è un capolavoro immane, un film MAIUSCOLO con il quale si faranno i conti per decenni.
La contrastata accoglienza veneziana e i tatticismi di certa stampa (che non si sbilancia per poter tenere il piede in due scarpe: quello della boiata e quella del film faro - e domani aver ragione in ogni caso -) non fanno che confermare l’assoluta purezza dell’opus lynchiano: il disaccordo tra gli spettatori e il giudizio frettoloso della miope critica che sa solo ripetere il bolso ritornello (“Non si capisce” ) ci conferma che l’autore è perfettamente in accordo con se stesso; l’unanimità ci avrebbe preoccupati, il nuovo deve disorientare, non sarebbe tale altrimenti (Alain Resnais, in conferenza stampa, ricorda le risatine, lo sconcerto, l’esodo dalla sala quando fu proiettato al Lido L’anno scorso a Marienbad, Leone d’oro 1961). Una sceneggiatura scritta giorno per giorno per un’opera tutta in digitale (e l’uso che Lynch fa del digitale, come lo piega creativamente alla sua poetica, costituisce un’altra svolta epocale, un vero Inizio; per questo domani si scialerà in saggi): il Maestro della pellicola non vuole più sentir parlare.  INLAND EMPIRE sovrappone arte e vita (attenzione), verità e finzione, realtà e rappresentazione, veglia e sogno (compreso quello hollywoodiano). Ancora una volta diversi sono i livelli che il film esplora e ancora una volta questi si accoppiano con voluttà partorendo mostri. Piani temporali (Se oggi fosse domani ) e narrativi (il film di partenza e il suo remake, quello che la protagonista  interpreterà e nel cui ruolo verrà imprigionata) che si incrociano, identità caleidoscopiche che si frantumano e si ricompongono in diversa guisa. Lynch crea il suo lavoro più estremo (fatica improba per certa critica che vuole la pappa pronta e ama spaparanzarsi nel comodo mezzo), rifiuta le scappatoie, per tre ore non molla la presa ed estenua l’occhio e la mente mescolando le carte di continuo, avvoltolando i sensi e non concedendo appiglio alcuno: ci fa piombare nel buio della sua mente e sventra l’interruttore. Ancora una volta il suo è un lavoro che paralizza la nostra mano sulla tastiera, non esaurendosi con una visione ma ponendosi all’istante come rivedibile, riconsiderabile, ripercorribile da un altro punto; il sogno non ha mai un tragitto unico e se le idee alla fine emergono, e la storia si rivela, conoscere la verità (o una semplice versione dei fatti) non serve comunque: quello che non sappiamo subito è davanti ai nostri occhi, ciò che non si capisce è già dentro di noi. Lynch non lancia messaggi, non vuole insegnare nulla, non indica vie di fuga, fa cinema e basta e lo fa pensando temerariamente a sé e non allo spettatore (esattamente come Greenaway): per questo ogni suo film, e INLAND EMPIRE più di tutti, potrebbe essere l’ultimo (dopo queste tre ore senza compromessi chi avrà il coraggio di produrne altri?). La chiarezza tanto agognata è dove conta, nel suo fare cinema, e splenderà, per chi vorrà bearsene, a visione estinta (esauriti i più bei titoli di coda che io ricordi). Ci baloccheremo a lungo con INLAND EMPIRE, lo guarderemo e riguarderemo, seguiremo tutte le piste di questo mistero spudorato, ricostruiremo alla perfezione tutti i meccanismi che lo governano nella consapevolezza che l’impressione scaturita dalle supreme immagini del più grande cineasta vivente (sì, lo è) rimarrà imperturbata dalla nostra sciocca (ma inevitabile) voglia di ricomporre il puzzle. Non avremo fretta di gustare una nuova opera lynchiana, la presente ci nutrirà per molto molto tempo - l’antidoto più efficace al mordi-e-fuggi contemporaneo -, sapremo godere a fondo di questo oggetto pauroso del quale impareremo (e tanti denigratori di oggi impareranno domani, perché succede sempre così) a non avere paura.
INLAND EMPIRE ci dice che la realtà ha un limite e che questo lo conosciamo in sogno.
INLAND EMPIRE ci dice che in realtà le cose possono stare in un altro modo.
INLAND EMPIRE dissemina segni che lasciano segni.
INLAND EMPIRE ci dice che va tutto bene: stiamo solo morendo.
(1 - continua)>

Se Fantozzi incappasse in un dirigente cinefilo che gli infliggesse la visione di "Inland Empire", pardon, INLAND EMPIRE (il maiuscolo è d'obbligo, pare), si esprimerebbe nel più classico degli epiteti, trovando la "cagata pazzesca" del ventunesimo secolo. Se invece un comune mortale si trova davanti all'enigma di David Lynch, le considerazioni che gli passano per la testa, non volendo osare tanto, sono le più disparate. Intanto bisogna riconoscere che il regista americano ha ormai acquisito un'autorevolezza tale che gli permette di fare ciò che vuole senza che nessuno si permetta di criticarlo. Ma queste sono considerazioni tendenziose. Per restare all'opera presentata al festival di Venezia, la sensazione immediata è di sconcerto. Intanto per la scelta, pare irreversibile, di abbandonare la pellicola per un digitale "basso", che con sgranature e colori spenti dà costantemente l'idea di assistere al backstage del film piuttosto che al film stesso. Superato faticosamente l'empasse del mezzo, resta l'opera in sé: un labirintico viaggio di quasi tre ore che rifiuta ogni logica narrativa e pare procedere per associazione di idee. Ci sono temi che ricorrono, l'esistenza di dimensioni parallele, con porte spazio-temporali in grado di superare i confini della mente; c'è l'atmosfera onirica che permea l'intera opera; ci sono le suggestioni delle note fisse del fedele Angelo Badalamenti; c'è l'incontro tra il passato e il futuro, c'è addirittura una digressione polacca e c'è la protagonista Laura Dern che è una, nessuna e centomila e si aggira armata di buona volontà per i "possible worlds" ideati dal regista. Non necessario trovare una logica, pare, l'importante è lasciarsi andare al flusso, seguendo i disegni, e i fantasmi, del proprio inconscio. Qualche inquietudine arriva, nelle sequenze della sit-com degli umani con la testa da coniglio, con il sottofondo di risate che produce un efficace straniamento, oppure nelle deformazioni che alcuni dei personaggi subiscono quando si presentano con una bocca più grande del normale. Uno sguardo deformante sulla realtà, un viaggio senza meta scavando dietro alla rassicurazione delle apparenze, un incubo ad occhi aperti. Pur riconoscendo la capacità del regista americano di non omologarsi e di seguire il proprio imprescindibile sentire, bisogna però anche ammettere che INLAND EMPIRE ha più attinenza con la video-arte che con il cinema. Una dimostrazione delle molteplici possibilità del mezzo espressivo che rischia di stare stretta alla sala cinematografica. Anche perché è vero che viviamo nell'epoca in cui tutto pare avere la didascalia interpretativa per essere facilmente venduto alla più ampia fetta di pubblico, ma negare l'esistenza di un pubblico, pur nella forte personalità del risultato, è un peccato di ego, e non da poco.

Una visione è poca, due sono troppe. Almeno per ora. Almeno, ovviamente, per me. Perché mi viene naturale andare sul personale di fronte al cinema più personale che ci è dato guardare qui e oggi. E allora dirò che il mio Lynch è quello che infetta di perturbante (e spesso divertente) mistero una situazione ordinaria: un’anziana signora va a presentarsi alla vicina e la loro chiacchierata precipita/innesca progressivamente (in) un paradosso/incubo spazio-temporale. Come? Un lungo dialogo vieppiù sconnesso e imbarazzante, una risorsa linguistica ordinaria (campo controcampo, regola dei 180°) inquinata da una sfasatura nella scala dei piani (il volto di Laura Dern è in Primo Piano, quello di Grace Zabriskie in Primissimo Piano) e una soggettiva finale che punta il dito su un divano altrove presente e/o passato e/o futuro. Esaltante. Qui risiede, per il Vostro Umile Recensore, la vera magia del cinema di Lynch, questo il vero depistaggio percettivo che, una volta innescato, riprogramma lo sguardo spettatoriale e spinge a osservare così “attentamente”, così “diversamente” la realtà profilmica fenomenica, oggettiva (banale?) da rivelarla in tutto il suo inquietante, polisemico e alfine indecifrabile Mistero. Tutto questo, in INLAND EMPIRE, c’è. Così come ci sono, cristallizzati e magnificati, i loci lynchiani pienamente codificati soprattutto da Lost Highway e il suo (in)naturale sequel Mulholland Drive: la costruzione di un intreccio e la sua distruzione a circa metà pellicola che passa “attraverso” un luogo (la cella in LH, la scatola blu in MD, il foro nella seta in IE), l’incombere di eventi passati(?) destinati a ripercuotersi (ripetersi?) nel presente(?), il raddoppiamento/rovesciamento dei ruoli (e delle vite) dei protagonisti, la schietta tematizzazione del Cinema con una mise en abyme impazzita. E ovviamente, e ancora, la solita dialettica Buio/Luce, i movimenti di macchina a entrare (uscire?), la comicità implosa con tanto di gag, il sesso innaturale e “impossibile”, gli inserti visivi e diegetici (probabilmente) illocalizzabili e (presumibilmente) incontestualizzabili in alcuno spazio (dove?), tempo (quando?) o sogno (quale?) che sia. C’è tutto questo e ovviamente molto altro, un altro che il Vostro Umile Recensore non ha certo l’ardire di aver capito. Ma non è questo il punto. Benché il V.U.R. continui a ritenere non trascurabile plusvalore, in un film come Mulholland Drive, la possibilità di ricostruire il mosaico con (quasi) tutte le tessere al loro posto: un caos destabilizzante e sconcertante ma solo apparente, che duplica (o forse moltiplica) il piacere della fruizione estetica. C’è il piacere di abbandonarsi al flusso ma c’è quello di ricostruire. C’è la paurosa estasi dello smarrimento unita al rassicurante ritrovamento della retta via. Non è cosa da poco. Chissà, magari anche il caos di IE è in qualche modo riordinabile ma anche se fosse, ci sono non poche cose che mi sono “mancate”. Perché il mio Lynch è fatto anche di puro piacere della visione, quello adamantino della prima metà di Lost Highway, di momenti in cui ci si affaccia chiaramente sull’abisso dei meccanismi che regolano il coinvolgimento spettatoriale (il provino di Diane/Naomi Watts in MD, “riproposto” con scarsi esiti in IE) e gli intrecci arte-realtà-verità-illusione (il Club Silencio, sempre in MD), e il mio Lynch è fatto anche di entertainment (quasi) classico – ossia – di tensione, voglia di guardare, voglia di “scoprire” cosa succederà dopo. In modo certo anomalo, anticonvenzionale, anti(neo?)narrativo, lynchiano. Ma stavolta no, mi sono solo perso, senza appigli e con poca voglia di trovarne (o di inventarmene), con i centosettantadue minuti divenuti via via pesanti, estenuanti e alfine interminabili. Mea culpa? Probabilmente. Necessità di re-visione/i? Sicuramente. Ma chi ne ha voglia? Una visione è poca, due sono troppe. Almeno per ora. Almeno, ovviamente, per me.

Non c’è niente da capire in INLAND EMPIRE. Tutto da comprendere. L’invito di Lynch ad abbandonarsi al flusso delle immagini e all’attività intuitiva (“Il cinema usa un linguaggio che parla alla nostra intuizione, sa esprimere concetti che le parole non potranno mai dire. Tutti abbiamo capacità intuitive ma non ce ne fidiamo, non le sappiamo usare”), non è un’interdizione a costruire senso attorno a quelle immagini, ma, al contrario, un’esortazione a tracciare percorsi semantici fluidi, traiettorie divaganti e, soprattutto, soggettive. Abolire l’intellezione in favore dell’intuizione non significa soltanto collaborare con il film ma, principalmente, lasciare che il fatto filmico (cfr. Gilbert Cohen-Séat) penetri nelle aree più profonde del cervello, saltando a piè pari il relais verbale e giungendo fino alle scaturigini del pensiero (“Il cavallo venne portato alla sorgente”). Ed è qui che inizia la nostra interpretazione, alla sorgente del pensiero. Formuliamo immediatamente - e avventurosamente - la nostra ipotesi: INLAND EMPIRE mette in scena il progressivo deterioramento esistenziale provocato dal tradimento. Non si tratta d’infedeltà coniugale ovviamente, ma della rottura di un vincolo, dell’infrazione di un patto che chiama in causa l’intera persona (“Le promesse che facciamo le onoriamo ed esigono rispetto, da noi stessi e per noi stessi. E, se necessario, s’impongono in nostra vece”, dice Piotrek – il marito di Nikki – a Devon in un dialogo tremendamente serio). Il tradimento produce perdita di consapevolezza, confusione, avvilimento. Una vera e propria involuzione a uno stadio di esistenza più degradato: dalla pellicola originale al remake, dal rifacimento filmico al disfacimento psichico. È come se ogni atto testimoniasse l’entità morale della persona, ne manifestasse la natura profonda (“Le persone col tempo si rivelano per quello che sono”), provocando delle ricadute a livello globale (“Un’azione, qualunque azione, ha delle conseguenze”). Non soltanto: l’infrazione dei patti che chiamano in causa la natura dell’uomo determina una reclusione, un imprigionamento (“Perché istigare la sofferenza?”), tradire ciò che esige rispetto comporta segregazione e oblio, prigionia e dimenticanza. Ebbene, INLAND EMPIRE è la rappresentazione – di una chiarezza accecante – di rinchiudimenti progressivi: scatole cinesi. La voce di Lynch sibila tagliente Ghost of Love, mentre Laura Dern, dopo essersi coperta gli occhi con le mani, spalanca lo sguardo sul teatro del tradimento primo, quello avvenuto sul set di Viersieben (4 7, il film maledetto basato su un’antica leggenda di zingari polacchi). Le azioni che ne conseguono – il duplice omicidio – rinchiudono la ragazza responsabile in una condizione di dolore continuo (le lacrime ininterrotte) e proiettano l’intera vicenda – ex novo – ad un livello inferiore (Hollywood Babilonia). E qui c’è un conto ancora in sospeso da pagare, l’inquietante vicina – inquietante poiché sincera e poiché Grace Zabrisikie – mette subito in guardia Nikki: “Un bambino un giorno andò fuori a giocare: nell’uscire dalla porta egli causò un riflesso. Il male era nato e seguiva il bambino”. E le suggerisce pure che questa “vecchia storia” ha anche un’altra versione, domandandole per giunta “L’argomento è il matrimonio? E suo marito, lui, è coinvolto?”. Avvertimenti. Che Nikki ignora. Perché in fondo siamo in una fiaba e come in ogni fiaba che si rispetti al divieto segue l’infrazione. “Ciononostante ci resta la magia”, conclude la molesta visitatrice. E solo la magia può salvare Nikki dal vortice che la inghiotte fin dal momento in cui accetta l’invito a cena di Devon. Il patto è infranto (quanto suona sardonico l’“in bocca al lupo a tutti” esclamato dal regista prima di girare la sequenza erotica!), ha inizio la spirale che trascina Nikki/Sue in un abisso di degrado (la prostituzione), abiezione (il monologo nell’“ufficio” AXXON N. ) e infine morte (anche se “solo” nella finzione di On High in Blue Tomorrows). Soltanto l’intervento magico di un Fantasma (ancora un Ghost of Love, nonostante le apparenze) è in grado di liberarla dalla condizione di smarrimento, paura e inconsapevolezza in cui è precipitata inesorabilmente. Un intervento abbagliante che le riflette la maschera stravolta e terrificante che è diventata disonorando la promessa, rompendo il vincolo della fedeltà (a se stessa prima di tutto). E che, conseguentemente, scarcera la ragazza piangente, ricomponendo la frammentazione e proiettando il film in una dimensione anteriore alla scissione originaria, una dimensione di pura luce: “Il cavallo venne portato alla sorgente”. I can see there…

Un film bellissimo, che conferma il ruolo centrale di David Lynch nell'arte contemporanea. Il regista americano si spoglia dell'incartamento narrativo, quell'inganno fallace che avvolgeva per 2/3 Mulholland Drive, e approda a un risultato di astrazione pura; ancora un garbuglio recondito ipoteticamente ricostruibile in maniera compiutamente definita. La leggibilità di INLAND EMPIRE non viene millantata né affermata come cervelloso vizio di circostanza; questa c'è, e splende lampante all'occhio disponibile di chi osserverà con premura.

Il mio film è chiarissimo
David Lynch

Per entrare in questo strano mondo, è necessario considerare le tre contrapposizioni fondanti che muovono il narrato: spazio/tempo, presente/passato, sogno/realtà. Nikki Grace viene scritturata come protagonista de Il buio cielo del domani; questa circostanza è preannunciata dalla vicina onnisciente, primo correlativo del regista, che come tale suggerisce le tappe delle opere (il film e il film nel film, concettualmente giustapposti). Dal primo ciak i livelli temporali si abbracciano e creano interferenze rappresentando, per metafora, il lavoro stesso di Lynch; è legittimo concedere a Nikki il dono dell'ubiquità (cfr. Lost Highway), essendo spazio e tempo già in cortocuircuito, e farla scomparire dove nessuno poteva scomparire (sul set = nel film). Nel gioco della sovrapposizione, comincia subito la danza lynchiana delle identità: il doppio trittico (l'attore, l'attrice, il marito geloso) è assolutamente interscambiabile sul piano cronologico. Nikki e Devon interpretano il remake, o forse lo script originale; lei ha un marito geloso, o forse un marito polacco invischiato nel malaffare (la parola chiave, il cavallo alla sorgente, è verosimilmente il codice per recapitare una partita di droga; vedi lo stesso simbolo in Fire walk with me); lei non può avere bambini, o forse è lui; lei fa l'attrice oppure la puttana, eccetera. La successione evenemenziale di IE, in ampia coerenza con la traccia di questo sogno inquieto, bisbiglia indizi e li carbonizza (il vicolo dietro il mercato, il numero 47, la biforcazione della risposta al quesito: Che ore sono?), compone, scompone e ricompone in nuova forma: dati quotidiani ruzzolano impazziti nella fase onirica. Tutto questo, a sua volta, viene presagito nella sitcom dei conigli (direttamente dal corto Rabbits); qui la straniata dialogistica marito/moglie, facilmente liquidabile nel nonsense, impartisce invece indizi seminali per leggere il film (Mantengo un segreto, Non ha chiamato nessuno oggi) per poi inserirsi direttamente nell'intersecazione dei piani (il telefono squillerà davvero). L'intreccio si piega al nocciolo della questione: dimostrare la valenza polimorfica del verbo 'narrare'. Le cose vanno in questo modo ma possono anche andare in quest'altro modo, in quest'altro, in quest'altro'. Nikki incontra l'oscura figura a cui racconta lungamente gli sviluppi possibili del plot e della propria vita; l'uomo si rivela quindi il proprietario della sala in cui IE è proiettato, secondo correlativo del regista, il timoniere del film. Diventa chiaro quanto inattaccabile il velo teorico sull'opera: il personaggio della ragazza disabile viene delineato ma non mostrato, come accadrà poi per la giovane prostituta e la sua scimmia. E' una grande trasposizione della nascita dell'Idea e del momento del parto narrativo; queste due figure non sono altro che possibilità tramiche inesplorate che, a dimostrazione, si faranno carne sui titoli di coda per salutare il pubblico, raccogliendo l'ovazione teatrale di fine spettacolo. A puntello dell'opera, infine, spuntano i protagonisti di un altro film. C'è sempre un'altra possibilità.

- Mr. Lynch, ci può spiegare la presenza dei conigli nel film?
- No, non posso spiegarlo.

Dalla conferenza stampa di INLAND EMPIRE

IE è un'opera di sostanza. A scanso di equivoci, per chi scandirà i termini incomprensibile e noioso (dio mio), perfino intellettuale - dove il campo onirico dimostra l'esatto contrario, la razionalità si assopisce - il film riassume le basi del lynchianesimo, le rivede e aggiorna con entusiasmo contagioso. Da sempre l'autore spinge alla deriva il tranquillo mezzo americano, fa esplodere Hollywood, macina il genere in senso stravolto e grottesco (vedi Wild at Heart e l'effetto devastante sulla fabbrica cinematografica dei '90); stavolta si serve di una parodia fiammeggiante, manovrata per illuminazioni liriche, con lo scopo di cuocere un'industria in panne che non ha idee (il film è un remake), chiede soldi a palate (l'aiuto regista) e pugnala i suoi protagonisti (Nikki si accascia presso l'insegna Hollywood). Il gusto della lurida telenovela nazionale prende il sembiante vigliacco di coniglio e, posizionando le risate registrate fuori posto, torna al pubblico in veste anomala e spiazzante. Da questo rifiuto categorico sorge l'inevitabile fantasia della visione, che inquadra il reale sotto nuova prospettiva (Nikki come Dorothy in Blue Velvet, la seta forata come lo spioncino dell'armadio nell'altro film), lo schiaccia e ne deforma i contorni. Molti temi si insinuano chiaramente nella rete di livelli temporali: l'irriconoscibilità dell'altro, reso lontano e insidioso da un elemento di alterazione (il dato fisico, la lingua polacca), lo strisciante disagio nello sdoppiamento dell'individuo (Ditemi se mi avete già vista), l'incubo vaporoso della società industriale (il racconto di Nikki, cfr. Eraserhead). Ma, oltre alle imprescindibili suggestioni predilette, IE percorre una strada tutta sua rendendo altresì espliciti i propri padri (L'anno scorso a Marienbad di Alain Resnais) e figliastri. Lynch riassume le caratteristiche dei maggiori cineasti oggi sulla piazza e, curiosamente, dietro la maschera vi trova segni di raccordo; la teorizzazione dei personaggi prima della loro apparizione in IE, esattamente come The Tulse Luper Suitcases III: From Sark to Finish di Peter Greenaway, dove il protagonista scompare e i comprimari continuano a parlare di lui; l'intermezzo musicale destabilizzante, ancora Resnais ma anche Ozon (8 Femmes, Gouttes d'eau), che congela l'intreccio e ne puntualizza sottobanco i nodi focali (in IE le puttane formano provocatoriamente un coro ellenico); l'irruzione della cinepresa nell'inquadratura e la recitazione impostata, in attesa del grido azione!, come accade spesso in De Palma; il digitale incollato ai volti degli attori, che ne rivela le asperità, vedi Michael Mann, soprattutto Miami Vice; le fughe nell'onirico, come anticorpi al realismo ingessato della produzione corrente, alla stregua dell'ultimo film di Michel Gondry.

Lasciate che sia il film a guardare voi
Justin Theroux

Il pubblico è generalmente portato a entrare nella sala cinematografica per vedere una storia. Qui accade un evento particolare: IE smentisce questo dato. Esso si colloca prima della storia, ovvero ne mostra una possibile genesi, possibile svolgimento, possibile stravolgimento. Non certa, non probabile, non plausibile: soltanto possibile. Si smentisce quindi di nuovo, perché è anche questa una storia, anzi la storia primaria. IE racconta la storia della storia. E' tutto qui (tutto? qui?) lo straripante scheletro concettuale che regge questo film e per il quale questo film rimarrà; ma al contrario di tanto luminoso materiale arty, imponibile e necessario, insomma quei film che si devono vedere (Warhol...), l'opera è una meravigliosa (in senso etimologico: che desta meraviglia) associazione di immagini significanti, una piovra di spunti che a ogni nuovo incontro stringe i suoi tentacoli. Lynch è disarmante, noi siamo disarmati.
Imperiale.

Dell’ossessione (de)generante

“[…] perché le sensazioni , le parole, i ricordi
invitano il pensiero a separarsi, ad ogni istante,
dalla direzione che sembra aver preso e a
camminare per sentieri inaspettati.”

E. Lévinas, Nomi propri

“Dick Laurent è morto”.

Ancora Lynch. Sempre Lynch. Il cinema è ancora e sempre l’eterno ritorno del (dis)uguale, del medesimo come altro da sé. Nel cinema di Lynch ci(?) vengono consegnate(?) mappe (u)cronotopologiche che sembrano possedere l’illusione affascinante/disturbante del nastro (anche pellicolare) di Moebius. Gli spazi, i tempi, le figure, i corpi, le immagini si piegano su se stessi disegnando quadri che debordano il vedere destrutturandolo nelle sue componenti più squisitamente fisiologiche: il trompe-l’oeil come decostruzione di ogni teoria della visione che voglia porsi pretestuosamente come definitiva e appropriante. Non è ovviamente casuale che Lynch frequenti i (non)luoghi (a procedere) del noir (Velluto blu, Strade perdute, Mulholland Drive e l’ultimo, bellissimo, Inland Empire), come, in qualche misura, metagenere in cui tutti i typoi e tutti i topoi celluloidali confluiscono e con-fondono per dare corpo alla visionarietà dei suoi deliri, per generare cioè il suo cinema. Il noir come infinito delle possibilità diegetico-visive si configura davvero come hortus mai conclusus, poiché è proprio questa “fine dei giochi”, la conclusione, ad essere sempre di nuovo messa in questione (pensiamo a tutti i finali lynchani da Eraserhead a quella estrema messa in gioco della circolarità temporale di Strade perdute, o spaziale di Elephant man) in virtù di un flusso narrativo spiraliforme come una vite che gira apparentemente e indefinitamente a vuoto; il noir costituisce proprio questo spazio cinematografico non tranquillizzante dove tutto risulta heimlich, e perciò, freudianamente anche il suo contrario. Il noir in questo senso si pone come sublime metafora di una sorta di teatro psichico in cui solo la lucida (/ludica) follia di una mente disturbata può dettare le regole del gioco, il che significa gettare i semi di una follia generante: Fred Madison, Henry Spencer, ovvero David Lynch. Lynch, nomoteta del nulla, di un tutto-nulla bruniano-schellinghiano, generativo, sembra l’unico ad aver compreso e sfruttato fino in fondo questa vasta gamma di possibilità che il noir pone in essere, in maniera si direbbe più sottile e perversa di qualsiasi altro genere cinematografico inclusi l’horror (strada prediletta ad esempio da Carpenter e Romero) e il fantastico in generale. (Pre)Esiste un lavorio filosofico destrutturante alla base del cinema di Lynch: in un quadro tipicamente e limpidamente cartesiano, razionalisticamente logico, in cui vige apparentemente in maniera rigida il principio aristotelico di identità si incuneano, a poco a poco, elementi scardinanti che in qualche modo, lentamente, subliminalmente, scompaginano l’assetto normalizzato e normalizzante della realtà squarciando il velo del reale, quell’abisso oscuro che è l’ombra delle cose riuscendo parimenti a scardinare qualsiasi pretesa di dominio teoretico (inteso anche come dominio del vedere: theorein) sul mondo. E’ rintracciabile dunque in Lynch un passaggio decisivo da una impostazione strutturale cartesiana ad una weltanshauung filmica di matrice kantiano-schopenhaueriana: una fenomenologia della visione non può che attestare la dimensione noumenica dell’oggetto che si vede, il visibile si sottrae a quella stessa volontà d’impotenza che pone il limite assoluto del vedere dischiudendo le porte ad una visione che vede o crede di avere la sorprendente illusione di vedere l’invisibile, la cosa in sé. Non è un caso che, ponendo la questione su questi termini, Lynch possa essere considerato, di diritto, la deriva più estrema e delirante della visione impazzita proprio perché ipercontrollata dell’occhio-cinema Stanley Kubrick. Il desiderio (e la paura) o piuttosto la libido scopica, la lucida ossessione di vedere sempre meglio e sempre di più dell’Overlook sfugge a qualsiasi controllo metodico preordinato, la macchina-occhio-desiderio che è il cinema (grande tema buñueliano peraltro) deve rifiutarsi non solo come oggettivazione filmica ma, a monte, come qualsiasi soggetto supposto vedere, l’unica visione possibile rimane la visione impossibile, lo shining, la visione del (/nel) tutto/nulla (che è il cinema stesso) in un tempo che non può che essere quello dell’attesa di un ereignis espropriante, l’attesa cioè di nulla, o di un tutto che può/deve accadere. Il tempo sospeso in cui qualcosa accada, si verifichi, si renda filmicamente vero o semplicemente si renda, anche come semplice presenza o come esser-ci apparente. Tutto Twin Peaks è pensato a partire da questo prolungato gioco del poter/dover accadere anche come semplice pre-visione di un qualcosa a venire nel futuro(?) incerto della visione, e del racconto nella sua presunta illusorietà di essere (concepito) senza fine, e di essere però comunque in qualche modo generato partogeneticamente attraverso un concepimento.
Ciò che per Kubrick è l’Overlook Hotel come labirinto duplicato di tutte le visioni e gli sguardi di ogni traccia ontica possibile e dunque come zona archetipica e epifanica dell’essere(/essere visto), sempre come condizione platonico-freudiana di essere-altro (da sé) in un ricettacolo della convessità spazio-temporale; per Lynch è l’aperto stesso, il luogo – non-luogo della strada oscura (Strade perdute, Mulholland Drive), o estremamente illuminata e solare (Una storia vera), una lichtung che coincide o può coincidere con il suo esatto contrario, il buio assoluto di un sentiero che può (non) condurre in nessun luogo (in particolare), in un altrove (anche filmico) spaesante che non siamo disposti a voler vedere (l’andare oltre il muro per la verifica incerta del sogno del personaggio del bar in Mulholland Drive, o la casa in cui dorme/sogna/muore Betty nel medesimo film e, saremmo costretti a dire, tutto Inland Empire) di cui comunque non possiamo saperne alcunchè (di più preciso) proprio perché non sussistono più coordinate spazio-temporali cartesiane visibili o pensabili. Il territorio verso il quale in qualche modo ci si sta spostando (“in qualche modo” poiché in questa de-negazione visiva, veder troppo/veder ancora troppo poco, l’unico dato sensoriale che possiamo esperire è quello della dislocazione impre-vista nella sua casualità borgesiana, come brancolanti nelle tenebre di una caverna alla ricerca di umbratili simulacri visivi rassicuranti: tutto il senso della notturnità, anche come notturnità del senso, in Velluto blu, Strade perdute, Mulholland Drive e nell’ “impero dei sensi” di Inland Empire) è la zona d’ombra, una sorta di frammezzo tra essere e non essere (sé), tra cecità e visione, tra pensiero e linguaggio, il regno delle ombre/luci dell’immaginazione, dell’allucinazione dell’inconscio. Il cinema di Lynch, come è noto dal suo primo darsi, dai suoi primi passi/fotogrammi (The Alphabet, The Grandmother, Eraserhead) è strutturato come un inconscio, anzi è l’inconscio stesso, con tutto il suo portato di energheia onirica seppur cristallizzata, anche solo per un istante, nella forma pellicolare. Si ripropone l’ipotesi metziana mai abbastanza metabolizzata del cinema-sogno (ad occhi aperti), del cinema delirio in cui ogni eccesso diviene la norma e viceversa in una poetica tutta lynchana dell’eccedenza, del (credere di) veder troppo, nelle zoomate sui dettagli apparentemente insignificanti come le tazze di caffé di Inland Empire – dentro il cui abisso siamo forse già precipitati – ma che rivelano poi aperture di zone di senso inquietanti e sconosciute, e accorgersi sorprendentemente di aver visto comunque troppo poco per pretendere di ricompattare almeno il senso filmico, un senso, una direzione. L’elucubrazione visiva lynchana prende corpo in un’immagine archetipica, già mito e culto originario prima di qualsivoglia tematizzazione cinematografica: la strada. Con Lynch siamo lontani anni luce (tanto per accogliere una metafora spazio-temporale) dalla wanderung romantica e dalle sue propaggini beat-generational; il viaggio lynchano è sempre catabasi mentale, sprofondamento psichico nello Schattenreich. Il viandante lynchano (che poi è soprattutto lo spettatore dei suoi film) non è neppure il flâneur baudelaireiano fin de siècle, è sempre accompagnato nietzscheanamente dalla sua ombra anche se in Lynch non è data possibilità di dialogo: o i sussurri o le grida, o il silenzioso ed agghiacciante grido di Munch, o delle figure urlants/flamboyants di Francis Bacon, alle quali la sua stessa pittura si ispira.
La strada rettilineamente in(de)finita si configura in Lynch come crocevia di pluriversi possibili (anche nella apparente linearità di Una storia vera), ma anche come luogo geometrico, non euclideo, delle intersezioni tra io e mondo/mondi, tra res cogitans e res extensa, o meglio tra Es e plurivocità dei mondi paralleli, come nelle biforcazioni così straordinariamente descritte dall’inventiva di Borges nella sua raccolta Finzioni (Il giardino dei sentieri che si biforcano) o dal surrealismo po(i)etico di Michel Leiris, le sue biffures: contemporaneamente biforcazioni (bifur come abbreviazione di bifurcation) e biffure, cioè cancellazioni e incessanti reiscrizioni delle tracce cancellate dalla mente lynchana che cancella (erase) per ri-tracciare di nuovo, implacabilmente, in cui si assiste alla messa in opera del delirio della possibilità angosciante di essere (l’) altro(ve). Un incrocio affascinante e pericoloso tra teorie psicanalitiche, letterarie (ovviamente occorre ricordare anche l’apporto giffordiano al venirsi a costituire di tale universo di senso) e quantistiche, un’ibridazione indotta per generatio aequivoca tra Freud e Everett/Heisenberg, tra inconscio e principio di indeterminazione, laddove proprio la generazione appare come il grande leitmotiv del cinema di Lynch, un cinema-inconscio che non può che generare forme filmiche differenti come disseminazioni significanti, forme che generano a loro volta altre forme: materia, corpi, vegetali, animali, (immagine della) fisicità tout court che si genera incessantemente da quell'unica fonte primigenia e originaria che è il cinema-inconscio David Lynch come ossessione costitutivamente (de)generante.

“Dick Laurent è morto”

(I’m deranged)

L’apertura e la differenza: narrazioni possibili e impossibilità della fabula

“È dunque essenziale alla cosa e al mondo
di presentarsi come «aperti» [...], di
prometterci sempre «qualcos’altro da vedere».”

M. Merleau-Ponty, Fenomenologia delle percezione

“Dear Santa, please send me some sort of FRAME OF REFERENCE!!!”

da The Angriest Dog in the World

Inland Empire. Innanzitutto c’è un assistere all’apofania del darsi di due elementi terminologici di cui cercheremo di seguire le rispettive traiettorie semantiche, e le possibili intersezioni.  Impero connota principalmente tre macrozone di significazione correlate e subordinate, una ontica (l’esistenza di un potere), una pragmatica (l’esercizio di quel potere) e una spaziale (il suo raggio d’azione). Il film di Lynch dispiega attraverso l’inesauribilità del flusso significante delle immagini l’incessanza del poter produrre senso, un territorio interiore (Inland) esteso e oscuro sul quale, antifrasticamente, ancora una volta nessun dominio teoretico definitivo è praticabile. È il senso stesso che nel suo generarsi, in una dimensione comunque lukàcsiana, processuale, anche si sottrae o pretende una sua riconfigurazione alla luce di una co-testualità di volta in volta differenziata (e differenziante), espropriando il nostro intervento interpretativo, “de-territorializzandolo”, rimettendolo a una provvisorietà comprensiva. Per quanto ci si possa sforzare di cogliere, oltre alla parallela devastazione sensoriale del côté visivo di cui siamo partecipi (e forse potrebbe bastarci solo questo), le in(de)finite connessioni significanti all’interno del testo, siamo condannati al piacere barthesiano di non poter sapere mai a sufficienza del senso e dei limiti entro il quale si sta rapidamente rimodellando. Ma siamo anche ugualmente destinati alla consapevolezza di non poterci non dischiudere alla possibilità del suo costituirsi, ovvero alla sua plurivocità. La messa in scena di una sensatezza testuale progressivamente/regressivamente frantumabile e incessantemente ricostituibile come nuovo circuito semiotico a partire da uno scambio simbolico abissale e esponenzialmente metalinguistico (la dislocazione geografica e di identità, il set/i set/, l’interno/gli interni, Hollywood/Lodz, Nikki/Sue/Lost Girl/Spettatrice) ci informa che la rappresentazione in Lynch non problematizza un’operazione di decodificazione dei segni raccolti lungo un percorso di disseminazione da parte di un’intelligenza colligente e rielaborante, quanto una più auspicabile ri-contestualizzazione peirceanamente intensiva, per cui tra un oggetto e il suo segno esiste una correlazione interpretante che ne lega il destino semantico, e questa congiunzione risulta a sua volta essere l’oggetto di un altro segno per il quale esiste una nuova liaison che procede in infinitum dando luogo all’irrefrenabile circuitazione del senso (ciò che Peirce denominava “semiosi introversiva forte”). Possiamo legittimamente concedere che il vier-sieben (4-7) riferito al prototipo del remake Il buio cielo del domani faccia capo all’esoterica dottrina numerologica di Gurdjieff[1] (plausibilmente ripresa dalle teorie lynchane sulla meditazione trascendentale) in relazione ai piani di coscienza nei quali presumibilmente sprofonda Nikki Grace, ma fermarsi qui, ovvero a una semiotica della decodificazione, significherebbe cristallizzare la dinamicità di un circuito semiotico più ampio e frastagliato (che procede e si sviluppa attraverso una spirale pierceana bidirezionale e retroattiva, dall’interno all’esterno e viceversa, da Nikki alla Lost Girl alla spettatrice e da questa di nuovo all’interno del film, come nell’ultima straordinaria sequenza in cui il presunto senso di una fine, di un’ipotetica riconciliazione (di chi? con chi?) prelude allo spazio-cinema nel quale la danza-canto finale appare fintamente catartica[2] poiché presentando la coralità dei personaggi della narrazione (o parte di essa) ci riporta bruscamente dentro il film, nel quale più si innescano aperture di senso e più non se ne può uscire), e dunque le sue in(de)terminabili derive diegetiche, mentre il congegno filmico lynchano suggerirebbe l’esatto contrario. Nell’intreccio come eminente forma lynchana di disintegrazione testuale siamo perciò esposti da una parte ad una costitutiva equivocità del senso e dall’altra, contemporaneamente, all’impossibilità di fabulizzare il materiale eterogeneo del testo, proprio perché ogni pretesa di unitarietà e “chiusura testuale”, anche soltanto narrativa o cronologica, cui la figura della fabula, attraverso la sua dolorosa ricomposizione di un’unità proppianamente perduta alluderebbe (nulla ci vieta di pensare peraltro che Inland Empire non possa essere guardato come una di quelle fiabe russe di magia raccolte da Afanas’ev, se è vero che di magia parla esplicitamente l’inquietante vicina di casa di Nikki), negherebbe il tratto costitutivo di “opera aperta” che Inland Empire di fatto presenta.
Naturalmente all’interno dell’architettura visionaria sulla quale si regge il film, della sua struttura anulare, fatta di coazioni a ripetere che spezzano il continuum narrativo, il quale in realtà – come abbiamo visto – non esiste, gettandolo nella messa in abisso di senso e rappresentazione, nel cui diastema testuale siamo costretti a guardare proprio il senso come – per dirla con Paul Valéry – a un’ “hydre infiniment extensible” non possiamo fare a meno di rilevare un massacrante (a livello ancora una volta semiotico) lavoro sullo spazio e sul tempo scenici.
Tutto sembrerebbe provenire di nuovo da un inconscio-mente-cinema (per una volta il sottotitolo italiano l’impero della mente mostra tutta la sua pertinenza) come teatro (ma anche set di un film o di uno show televisivo, come On the Air, come Rabbits) del visibile/invisibile in-abissarsi del discorso sullo smarrimento delle identità (che si può configurare parallelamente pure come perdita delle identità di senso) in cui io e altro vi si trovano nella più totale sovrapposizione e nella più distanziante differenza. È ben vero che il percorso di slittamento dell’identità dell’io nell’altro (il “je est un autre” di Rimbaud), percepito inizialmente dallo sfasamento dei piani nell’incontro spaesante tra la vicina di casa[3] e Nikki (differenze di campo individuabili nelle focali, nelle angolazioni di ripresa e nella (im)mobilità della m.d.p.), tende a far pensare alla con-fusione di identità e alterità in un’unica storia del soggetto come se davvero ci fosse un principio di schisi psichica che interverrebbe a frazionare l’individualità di Nikki in tante cellule di alterità (Sue, Lost Girl, spettatrice, Fantasma), ma saremmo tentati di ascoltare meglio il racconto bachtinianamente polifonico che si va compiendo attraverso il film e di riflettere sul fatto che la configurazione dell’altro, come immagini e parole che risuonano per tutto l’incedere diegetico in maniera estranea e incomprensibile (l’indecifrabile frasario, la lingua polacca), forse intende alludere a una extralocalizzazione, a un exotopia[4] assoluta e distanziante che allontana irriducibilmente l’altro (come alterazione, come farsi altro dell’io) dall’io, generando una deriva desoggettivizzante, intesa non come semplice frantumazione dell’io. L’io diviene l’assolutamente altro, come Fred Madison diventa Peter Dayton e contemporaneamente la presumibile parte demoniaca di sé Mistery Man, come Betty Elms diventa Diane Selwyn e Nikki Grace Susan Blue e, contemporaneamente, la parte demoniaca di sé (metafora del tradimento, uno dei tanti possibili temi esposti nel film e anticipati dalla menzione della vicina sul “riflesso del male nel mondo”), il Fantasma (in una delle sequenze finali, all’interno dei bui cunicoli nel non-luogo retrostante il teatro di posa, si assiste alla proiezione del volto spaventosamente deformato di Nikki su quello l’istante prima cancellato (erase) del Fantasma). Un “altro” che l’io è costretto ad affrontare visivamente prima di riconoscersi come io (“Mi avete già visto prima?”), in tutta la sua alterità, o forse come figura duplicata della e dalla coscienza se è vero che la coscienza (ritorniamo sempre all’interiorità dello Inland), come sostiene Merleau-Ponty, è il luogo eminente dell’ambiguità, è la causa fenomenologica della scissione dell’io come soggetto/oggetto del percepire, del paradosso del vedere e dell’essere visto, o dell’insostenibilità della visione rifless(iv)a del vedere vedersi (come la Jeune Parque di Valéry, o il personaggio di Buster Keaton in Film di Beckett e Schneider, o la stessa Nikki/Sue), nello scarto diacronico che intercorre tra le due azioni. Tutto ciò nel tempo acronico, nella dimensione zeitlosichge, atemporalizzata, che il film accoglie, nella scena come luogo eminente del differimento in cui si annunciano spiazzanti le ferit(oi)e di un tempo (una inconcepibilmente vaga scena del delitto occorsa dopo non si sa quale mezzanotte, l’oggi che è già domani etc.) aporeticamente incompibile. Resta eternamente la perturbante immagine di movimento scandita dall’atonalità di Penderecki (la quale in qualche modo riconduce riecheggiandone le note [5] all’Overlook kubrickiano dove però era il frame già sempre congelato di Jack Torrance a fecondare di senso quell’eterno ritorno dell’essere-vedere atemporale eppure segmentabilmente temporalizzato del cinema) per la quale si rimane a girovagare all’interno del labirinto [6] delle narrazioni possibili e delle aperture al senso evidenziato dall’incessante ripetersi marienbadiano della teoria spazio-temporale di corridoi, porte e pertugi disseminata di zone  luminosissime e ombrose della Unvernunft lynchana, del nonsense di matrice carrolliana (la scena abitata di Rabbits), come espedienti di programmatica destrutturazione testuale.

[1] Vedi la pagina blog di Spostati e le relative interessanti derive inaugurate da Alessandro Baratti.
[2] Contravvenendo quindi anche all’esito teorico raggiunto da Lev Vygotskij in Psicologia dell’arte per cui l’evento catartico del finale retroagirebbe (come il nachträglich freudiano) sulla sensatezza processuale all’interno dell’opera.
[3] Interessante l’osservazione di Emanuele Di Nicola a riguardo sul personaggio interpretato da Grace Zabriskie, secondo cui sarebbe null’altro che un correlativo oggettivo dell’autore, o quantomeno (considerazione nostra) una sorta di narratore onniscente, o di demiurgo che prepara ab initio la metabolé precipitante.
[4] Bachtin, La parola nel romanzo, saggio del 1934-35 contenuto in Bachtin, Estetica e romanzo, Einaudi, Torino 1979, pp 67-230.
[5] Kubrick in Shining aveva utilizzato la stessa Polymorphia di Krzysztof Penderecki, riproposta da Lynch.
[6] Inteso nella doppia valenza etimo-topologica di labrys (ascia bipenne), luogo nel quale per via di una dinamica sacrificale un evento delittuoso si deve compiere, e labra (caverna, grotta segreta), locazione incubale e infera nella quale si discende.