TRAMA
Dal romanzo autobiografico di JT Leroy: Jeremiah è il figlio di Sarah, una prostituta che lo strappa ai genitori adottivi. Una nuova, terribile vita lo attende.
RECENSIONI
Ingannevole è il cuore più di ogni cosa e incurabile! Chi lo può conoscere?
Geremia 17,9
Asia Argento è tutt’altro che una sprovveduta e dopo SCARLET DIVA [film personale fino all’artificio (…) perché malgrado sia fasullo è esattamente il suo scrisse il sempre acuto Alessandro Bertani nella recensione più lucida letta sull’argomento], prova discutibile quanto altre mai, ma ricca di intuizioni e di talento, conferma, con questo adattamento, quanto di buono c’era nell’esordio. Del libro da cui è tratto il film e del suo autore ne abbiamo scritto su un post de GLI SPOSTATI, non ci ripeteremo dunque. La regista, alle prese con un romanzo di culto, non si limita ad indossare l’aura maledetta che lo circonda e a farsene equivoca interprete ma impone alla materia il suo metro e il suo occhio: non una semplice traduzione per immagini, dunque, ma un’operazione segnata dalla rilettura personale, cinematografica all’estremo grado, di un malessere, di una condizione, di una storia. Prova non facile – tanti occhi e fucili puntati addosso - ma sostanzialmente riuscita: se è vero che nell’esposizione dei fatti molte figure passano senza lasciare traccia alcuna (le apparizioni di lusso - Muti, Ryder, Manson, Fonda, Pitt – sono pura distrazione divistica, curiosità fine a se stesse), che gli scenari mutano bruscamente, che la scrittura è a tratti piatta a tratti più elaborata e che forse nelle mani di un altro regista INGANNEVOLE avrebbe ottenuto un adattamento più fine, è vero d’altronde che sarebbe risultato - a conti fatti - un film molto meno interessante. Asia sa girare, sa cosa vuole e, senza farsi prendere troppo dal dato sordido di fondo, è estremamente attenta alla suggestione nella costruzione dell’immagine; tra una disavventura e l’altra del piccolo Jeremiah, dipinge stralci figurativamente attraenti in cui, mescolando registri, dimostra come - se sul piano puramente narrativo zoppichi alquanto - sul versante visionario abbia, paradossalmente, idee di una chiarezza acida: primi piani spietati, uso accorto di digitale e fotografie, velocizzazioni, punti di visione inusuali, uno squarcio quasi lynchiano (il carbone che piange e sanguina), il tutto condito da bella disinvoltura e in un contesto liricamente e visivamente coerente. INGANNEVOLE E’ IL CUORE non ha il tono da favola malata del romanzo, punta altrove: la torbidezza della parola scritta si raffredda per dare spazio a un catalogo di efferatezze depurato da qualsiasi emozione, più pedante che toccante - in cui la mania autodistruttiva di Sarah è un ritornello stonato, cantato con studiato eccesso di toni -, un campionario di ossessioni, in cui i temi della purezza e la mania del peccato vengono solo accennati, ma nella cui descrizione Argento sfodera uno stile spudorato e non privo di eleganza. L’epilogo del romanzo, forse la sua parte più indigeribile, viene glissato (ma tutto l’abominio dell’opera letteraria è abilmente sublimato – nella scena del babydoll Jeremiah, in piena identificazione con Sarah, è interpretato dalla stessa Argento), preferendo l’autrice puntare su un finale aperto in cui le storie di strada di madre e figlio proseguono.
Non sottovalutiamo Asia Argento regista, un giorno potrebbe sorprenderci sul serio.
Dopo il pessimo esordio con "Scarlet Diva", Asia Argento, forte del supporto di un romanzo in cui dimostra di saper credere, con l'opera seconda fa un notevole salto di qualità. Ci sono tutti gli elementi a lei cari, dal maledettismo dei personaggi alle iperboli della narrazione, ma c'è anche un'apprezzabile schiettezza di fondo, oltre all'abilità di sublimare la caduta agli inferi del giovanissimo protagonista attraverso una messa in scena a stretto confine con l'arte. È proprio la regia l'aspetto più riuscito del lungometraggio, la capacità di Asia Argento di creare un'atmosfera malata ed eccessiva ma coerente dall'inizio alla fine, senza stonature o sbavature. In particolare colpisce il modo, indiretto e molto efficace, con cui è rappresentata la violenza nei confronti del bambino: nessuna concessione alla gratuità, ma un incubo in cui le braccia cadono a terra, con due corvacci, ora neri, ora rossi, pronti a cibarsi delle viscere di un'infanzia rubata. Così come non è semplice accessorio il corredo di accelerazioni e rallentamenti con cui dettagli dall'andamento allucinatorio si accumulano nel delirio visivo e sonoro. È il delirio in cui è costretto a sopravvivere un bambino di sette anni, strappato ai genitori adottivi per condividere lo sbando di una madre incapace di trovare un proprio centro di gravità, o perlomeno di trovarlo consentendo a suo figlio il più che lecito diritto a esistere. Non tutto è equilibrato nella visione di Asia Argento, anzi. La critica al bigottismo della famiglia di origine ha il fiato corto, una programmatica voglia di infastidire è fin da subito nell'aria e nella seconda parte la narrazione si sfrangia, dilungandosi con prolissità senza aggiungere granché. I camei delle star, poi, hanno più la funzione di promuovere il progetto che di supportarlo con la recitazione: Ornella Muti gioca nella fissità dello sguardo con l'icona della maternità che rappresenta, Winona Ryder è una psichiatra infantile sopra le righe, Michael Pitt è poco più di una comparsa e Marilyn Manson dimostra in poche battute tutta la sua legnosità. Forse il più in parte è Peter Fonda, che ben incarna le ambiguità di un padre accecato dall'ossessione religiosa. Anche l'Asia interprete non sempre centra la misura richiesta dalla parte per evitare che l'esagerazione ceda il passo alla sbracatura. Eppure, nonostante gli evidenti difetti, il ritratto impietoso di una provincia americana in cui prende forma il tentativo disperato di un bambino di preservare la propria purezza, ha una sua forza, sia comunicativa che estetica, da non sottovalutare.