COLLEGE BOY (Indochine) – HELLO (Adele)

College Boy
(Indochine)

Regia, sceneggiatura: Xavier Dolan
Interpreti: Antoine Olivier Pilon, Antoine L’Écuyer, Alexandre Cabana
Direzione della fotografia: André Turpin
Montaggio: Xavier Dolan
Produzione: Metafilms
Canada, Francia, 2013
Un adolescente bullizzato dai compagni di scuola: le persecuzioni aumentano e conducono alla sua crocifissione.
Non sorprende certo questo esordio nel mondo del videoclip di Xavier Dolan. Non sorprende perché tutta la sua filmografia dimostra la conoscenza del linguaggio videomusicale, ne testimonia una costante applicazione, a volte filtrata, a volte letterale (l’incipit di Laurence Anyways, solo come esempio)
In College Boy degli Indochine la parabola persecutoria che coinvolge un giovane studente finisce con una crocefissione metaforica. Dolan non ha mezze misure e il suo discorso, per quanto simbolico, rimane evidente, leggibile: la diversità è un pericolo per chi se ne fa portatore, gli altri si rifiutano di guardare le angherie quotidiane  (gli occhi velati), i soprusi inaccettabili eppure tollerati, avallati da istituzioni complici (i poliziotti che rivolgono le pistole elettriche all’indifeso crocifisso, il responsabile scolastico che si presenta come un rozzo sceriffo).
Mentre il bianco e nero rievoca certo cinema inglese (l’ambientazione collegiale è del resto una diretta emanazione del brano), con tutto il suo sottotesto di asfissiante perbenismo (le scene familiari), omertà, repressione e ferocia, il video, dopo un prologo tutto giocato sul sonoro, innesca un’escalation tanto disturbante quanto magnificamente gestita, tra ralenti, sfocature, inquadrature a dettaglio, pregevole composizione dei quadri.
Il merci finale è un enigma che agghiaccia.
La scelta del formato (1:1, lo  stesso che il regista adotterà per Mommy) è da leggersi in relazione al tema, a queste ambientazioni-prigioni, al clima soffocante che si respira nella narrazione. Video subito contestato per la sua violenza (e inizialmente censurato), ha costretto Dolan a una lettera aperta su Huffington Post [1] indirizzata a Françoise Laborde, la presidente del Consiglio superiore dell’audiovisivo francese (CSA), che aveva aspramente criticato il videoclip.
[1] Di seguito un estratto (la traduzione è mia):
«Lei afferma che il mio videoclip “mostra delle immagini di cui la violenza è insopportabile… […] Ne abbiamo abbastanza di questa moda della violenza… La morte non è estetica. La violenza non è estetica. La tortura, non è estetica”. Alla luce dei suoi commenti, ne deduco che mi percepisce come un artista semicosciente spinto solo dalla necessità di confezionare il suo più recente capriccio, che non realizza il tenore del suo proposito né la portata del suo gesto. “Non si denuncia la violenza mostrando la violenza” lei aggiunge. Allora come si la denuncia? Come la si denuncia se non attraverso una dimostrazione per assurdo? (…). Censurare il mio lavoro perché è violento mostra grande incomprensione dell’essenza del videoclip di cui la sua lettura si limita alla superficie, ma più largamente della sua incomprensione del contesto sociale in cui opera, e dell’incompatibilità del suo agire in questo spazio-tempo. Difatti, Signora Laborde, lei arriva al tavolo per il dibattito sulla legittimazione della violenza sullo schermo con circa trentacinque anni di ritardo. Perché cosa dire di tutti questi film che, negli ultimi quattro decenni, escono in sala ogni venerdì e che banalizzano il gesto violento? Se c’è stato un tempo in cui i suoi loghi proibitivi e le bandiere gialle bastavano a limitare il loro spettro deleterio, il suo dovere, oggi, in quanto presidentessa del CSA della Francia, è di reinserire le competenze del suo mandato nella realtà attuale come ridefinita dall’eredità della tecnologia. Ora, questa tecnologia permette, nel 2013, a qualsiasi bambino di visionare, qualora non l’abbia già visto nelle sale, il trailer di un qualsiasi film vietato ai minori di diciotto anni. Potrà vederne eventualmente delle sequenze su YouTube, Dailymotion, ed infine visionarlo una volta per tutte su AppleTV o Netflix due mesi più tardi appena, e senza alcun problema. Oggi, le limitazioni della violenza sono proporzionali ai limiti che lo spazio virtuale ci propone: quasi nessuno.

E cosa dire di tutti questi videoclip provenienti dalla cultura nordamericana del hip-hop? Ci si formalizza ancora per tutta questa sessualizzazione della gioventù e oggettivizzazione della donna? Gli eccessi dell’inizio del secolo così come le nostre prese di posizione di allora sono ancora tanto appassionati o si sono trasformati in velleità di sanzioni che mirano a giustificare l’esistenza degli uffici di censura resi desueti dall’autocrazia della rete? Tutti erano scandalizzati quando il clip Baby One More Time di Britney Spears è uscito nel 1999. Lo rivedo oggi e sono persuaso che l’adolescente lambda si chiederebbe perché Britney Spears indossi  tutti quei vestiti».

Hello
(Adele)
Regia: Xavier Dolan
Sceneggiatura: Adele, Greg Kurstin
Interpreti: Adele, Tristan Wilds
Direzione della fotografia: André Turpin
Montaggio: Xavier Dolan
Produzione: Believe Media, Sons of Manual, Metafilms
U.K., 2015

Ieri tradiva il compagno, che per questo l’ha lasciata. Oggi prova rimorso e canta la sua sofferenza.

Girato a Montreal in gran segreto (persino la troupe ha scoperto chi fosse l’artista coinvolto solo il primo giorno di lavorazione), Hello segna l’attesissimo ritorno di Adele dopo il clamoroso successo del primo album: il video batte il record di visualizzazioni in un solo giorno (quello della sua pubblicazione) e oggi risulta uno dei più cliccati della storia di YouTube, puntando ai tre miliardi di view.
Per questa rentrée Dolan delinea un dramma che vede, nel prologo, la cantante entrare nella casa di campagna in cui ha vissuto la sua storia d’amore, liberare i divani da teli polverosi, riaccendere il fornello della cucina e impugnare la cornetta del telefono, dando libero sfogo ai ricordi: emerge, dunque, per spudorate soggettive, l’immagine dell’ex in circostanze – prima felici, poi dolorose – che culminano in uno straziante addio sotto la pioggia. Il regista, muovendosi tra realtà e cosciente drammatizzazione, mitizza non solo i ricordi, ma anche il presente, facendolo galleggiare in una dimensione temporale indefinibile (gli arredi e gli accessori vintage [1], l’immagine virata in seppia): così siamo in autunno, il vento fa vorticare nell’aria foglie morte e frusta il viso di Adele che canta la sua disperazione, mentre le lacrime scorrono enfatiche su quel saluto (Hello, it’s me).
La protagonista ha tradito e ammette di aver sbagliato, ma sa che indietro non si torna e che sta conversando col passato: nessun hello from the other side, insomma, il filo si è spezzato (la cabina telefonica abbandonata è divorata dalla natura), lui se n’è andato per sempre e al telefono, dunque, non c’è nessuno. La donna sta recitando (replicando) il suo mea culpa, risvegliato da quel luogo che ospita solo il fantasma dell’amore che fu.
Mélo, it’s me.

[
1] Xavier Dolan: «L’uso del cellulare flipflop è coerente col resto del mio lavoro. Non posso filmare un IPhone, è troppo reale, troppo identificabile con l’attualità. Lo stesso per le auto: mi sento male a filmare una Toyota o una Kia. Appena filmi questi elementi, senti di stare a girare un commercial qualsiasi. Li trovo antinarrativi».