Avventura, Recensione, Sala

INDIANA JONES E IL QUADRANTE DEL DESTINO

TRAMA

1969: l’anziano Dottor Henry “Indiana” Jones si è separato dalla moglie Marion, ha perso il figlio in Vietnam e insegna ancora all’Università. In un bar, incontra la figlioccia Helena Shaw che lo coinvolge nella ricerca del meccanismo di Antikytera, o Quadrante del Destino.

RECENSIONI

Nella nota 65 di Una Cosa Divertente Che Non Farò Mai più, Wallace scrive: “Il bagno della 1009 odora sempre di uno strano ma non sgradevole disinfettante norvegese il cui aroma fa pensare a un composto sintetizzato da uno che conosca l’esatta struttura biochimica di un limone senza averne mai sentito l’odore”. Ecco, Indiana Jones e il quadrante del destino è un po’ come quel disinfettante norvegese, strano ma non sgradevole, come se Mangold conoscesse l’esatta struttura narrativa/audiovisiva dei film della saga senza mai averne visto uno. O senza averli capiti. Sicuramente senza la capacità di riprodurne, credibilmente, “l’aroma”. Quel genuino (anagramma di ingenuo), divertente, divertito senso di avventura che animava la tetralogia (sì, ci metto anche il quarto capitolo) qui è solo scimmiottato, inseguito in maniera un po’ asettica e goffa ma mai veramente raggiunto.

Parte del demerito va sicuramente attribuito al polso di Mangold, poco a suo agio con l’azione pura, che si limita a fare un cut&paste (auto)citazionista (treni, sidecar, cavalli, fruste, cunicoli entomologici, c’è davvero tutto) teoricamente giusto ma sbagliando i tempi, allungando il brodo quando non dovrebbe e finendo – salvo rarissime eccezioni – per trasformare in statico tutto il ben di dio dinamico che aveva imbastito con competenza. Ma non solo. Anche la sceneggiatura ci mette del suo, perché i consueti dialoghi da “commedia brillante” non mancano ma mancano di brillantezza, i passaggi auto-riflessivi suonano come atti dovuti, scritti col pilota automatico da chi non sembra crederci (né sentirli) davvero, e la storia, che sa più di Uncharted (ossia di indianajonesismo di ritorno) che della real thing, decolla solo nel finale (sul quale però torneremo), a cose fatte e si conclude in fretta e furia, senza prendersi il tempo necessario per esprimere il suo potenziale.

Certo, non è tutto da buttare. La prima sequenza, ad esempio, è un prologo efficace, che rimanda all’incipit de L’Ultima Crociata con un (più) giovane Indy (River Phoenix) alle prese con un inseguimento in treno, il ringiovanimento di Harrison Ford è tutto sommato credibile, è bello vederci (o volerci vedere) anche le citazioni che non ti aspetti (Top Secret!?) e l’atmosfera generale è quella giusta. Già dalla sequenza successiva, però, le cose iniziano a funzionare meno e, soprattutto, si palesa un’indecisione di fondo sul tono da tenere e sul(l’eventuale) futuro da dare alla saga. Jones seduto sulla poltrona in mutande e calzini come un anziano qualunque infastidito dai vicini chiassosi sembra prendere una direzione, Jones in piedi a torso nudo che mostra ancora un fisico invidiabile sembra prenderne un’altra. La fretta con cui si chiarisce che il figlio è morto in Vietnam e Marion l’ha lasciato sembra un modo per cancellare dal canone, a furor di (un) popolo (forse poco obiettivo), Il Regno Del Teschio Di Cristallo, ma il ritorno di Marion nel finale sembra un’operazione di ricanonizzazione. E ancora: la citata notizia della morte dell’erede di Indiana sembra dire: Indiana Jones non avrà eredi/sostituti; ma lo spazio dato alla Phoebe Waller-Bridge suggerisce quasi ipotesi di segno opposto. Anche se poi nel finale quella mano che riacciuffa il cappello… E così via.

È un’indecisione da non sottovalutare, perché questa probabile intromissione attendista di (non) scelte disneyane/aziendali nel tessuto narrativo contribuisce a rendere questo quinto capitolo della saga freddo, artificioso, costruito, contrattuale, anche godibile – a tratti – ma sostanzialmente privo di personalità e, se non di anima e cuore, almeno di affetto sincero e disinteressato per il personaggio. Con una probabile quanto (forse) involontaria, metariflessiva eccezione: nel citato finale, Indiana si ritrova nel passato (assedio di Siracusa, 212 a.C.) e, senza una motivazione (di sceneggiatura) veramente forte, coerente o plausibile, non vuole tornare nel presente ma chiede di rimanere sostanzialmente relegato nella Storia. Davvero difficile, alla fine di un film come questo, non uscire dalla diegesi e leggere in quello sguardo spaesato e supplicante di Harrison Ford / Indiana Jones la richiesta di farla finita qui, di lasciare in pace un personaggio che a suo modo ha fatto la storia del cinema ma che ora sarebbe forse meglio lasciarcelo, nella Storia. Senza che nessuno gli dia un pugno, lo stordisca e lo riporti nel qui e ora di un ipotetico Indiana Jones 6.