Incontro con LUC BESSON: il blockbuster è d’autore

Luc Besson, classe 1959, è uno dei pochi artisti per cui si può abbinare il termine autore con la parola successo, fautore di un cinema impossibile da incasellare ma sempre teso all’intrattenimento. Poco amato dalla critica, che l’ha prima accusato di un gigantismo puerile giocato sulla creazione di immagini forti senza un solido costrutto, e poi di pretenziosità, ha invece avuto, soprattutto negli anni ’90, un grande seguito di pubblico che ha premiato la sua capacità di pensare in grande.

Il debutto nel 1983 con il fantascientifico Le dernier combat gli apre le porte, nel 1985, alla realizzazione della favola romantica Subway, ancora oggi oggetto di culto per il glamour della coppia Isabelle Adjani, bellissima, e Christophe Lambert, mai così in parte, per la felice commistione di immagini e musica e per l’originale ambientazione sotterranea nei cunicoli labirintici della metropolitana di Parigi. Enorme, poi, il successo di Le grand bleu nel 1988 (9 milioni di spettatori solo in Francia), che racconta amicizia e conflitti di due rivali nel campionato del mondo di immersione in apnea. In Italia il film è arrivato con ben 14 anni di ritardo a causa di un’azione legale di Enzo Majorca che, riconoscendo il suo rapporto con Jacques Mayol e riscontrando un’interpretazione lesiva nei suoi confronti, ottenne che il film non venisse distribuito nel nostro paese. Ma sono gli anni ’90 (in cui tornerà anche a perlustrare gli abissi marini con il documentario Atlantis) a confermare a livello mondiale il talento di Luc Besson, che comincia a delineare, oltre alla grandeur, un altro tema centrale della sua visione: la presenza di donne forti dall’apparenza fragile. Ed è proprio grazie alla centralità dell’elemento femminile che Besson rende le interpreti dei suoi film star internazionali: Nikita impone il carisma di Anne Parillaud, Leon rivela il talento di una giovanissima Natalie Portman e Il quinto elemento e Giovanna d’Arco consacrano il passaggio definitivo di Milla Jovovich da lolita delle passerelle ad attrice. Meno eclatante il nuovo millennio, con qualche sperimentazione discutibile (Angel-A) e dieci anni dedicati alla saga per bambini in tre puntate basata sul personaggio di Arthur: Arthur e il popolo dei Minimei (2006), Arthur e la vendetta di Maltazard (2009), Arthur 3: la guerra dei due mondi (2011). Una trilogia che ha riscosso un grande successo soprattutto in patria senza riuscire però a conquistare il mercato americano e il resto del mondo; in ogni caso per Besson, grazie al vastissimo merchandising, una vera e propria miniera d’oro. Il 2010 segna poi il ritorno di Besson al cinema tradizionale con Adèle e l’enigma del faraone, tratto dai popolari fumetti del francese Jacques Tardi ambientati nella Parigi del primo Novecento, che introduce un’altra eroina e un’altra attrice convincente: Louise Bourgoin.

 

A Bologna Luc Besson incontra il pubblico nella seducente atmosfera della Salaborsa. Indossa una giacca in gessato sopra a una maglietta scura su cui campeggiano i Minimei ed è visibilmente dimagrito rispetto alle foto recuperabili in rete. La prima cosa di cui si sincera è che si tratti di vero pubblico e non esclusivamente di giornalisti, confermando il rapporto conflittuale con la stampa. “In Francia non amano i vincenti”, ha dichiarato in passato, “non giudicano mai i miei film, ma solo me”. Una volta appurato che la folta platea è in maggior parte rappresentata da appassionati accorsi proprio per incontrarlo, Besson si rilassa e risponde con gentilezza a tutte le domande.
Con la trilogia di “Arthur” il target è principalmente quello dei giovanissimi. Cosa cambia nel rivolgersi a un pubblico di questo tipo?

I ragazzi sono molto intelligenti e svegli e bisogna stare attenti. Scherzi a parte, quando ti cimenti in un’impresa di questo tipo hai una grande responsabilità. I ragazzi danno per scontato ciò che vedono, non ne prendono le distanze, sono spugne che assorbono tutto, quindi devi cercare di fornire loro del buon cibo, cibo bio.

Come è passato nella sua carriera dal cinema pulp a quello per ragazzi?

Siete voi che mi offrite la libertà di cambiare. Quando ero giovane avevo esigenze diverse da ora. Ognuno ha percorsi di vita differenti che lo portano a evolversi. Ho appena finito The Lady su Aung San Suu Kyi, leader dell’opposizione birmana e Nobel per la pace nel 1991. Non mi soffermo su un genere, voglio esplorare il più possibile. Tornerò quindi a fare film più seri, ma forse anche altri film per bambini. Mi stancherei, e anche voi, a rifare sempre lo stesso film, anche se mi è stato proposto: Nikita o Leon 1, 2, 3, oppure Nikita contro Leon!

Quali sono le costanti del suo cinema?

Me stesso. Sono Leon. Sono Giovanna d’Arco. Sono Nikita. Sono Arthur. La costante è l’onestà dell’approccio al lavoro. Un’onestà verso i propri gusti e le proprie propensioni che non consente sempre risultati ottimali, ma permette al pubblico di derivare qualcosa dal film, che sia il bambino di nove anni italiano o la signora settantenne coreana. Ci tengo comunque a precisare che non ho modelli del passato a cui rifarmi. A casa non avevo la televisione, quando è arrivata avevo quindici anni, la sala cinematografica più vicina era a venti chilometri. Faccio cinema da sempre per esprimere unicamente me stesso. È per questo che sono concentrato sulla narrazione, mi interessa che il personaggio sia ricordato. Opere mie che sono state ferocemente criticate, ancora oggi, dopo vent’anni, sono ricordate dal pubblico per alcuni personaggi, cosa che a me da spettatore, verso film incensati dalla critica, raramente accade.

Quali sono i film e gli autori che più la ispirano?

Non traggo influenza dai film di altri. Il film è qualcosa che è stato digerito da chi l’ha fatto. È come sposarsi tra consanguinei, non possono nascere che mostri. Sono i sensi, i pori della pelle, il fluire della vita, a darmi l’ispirazione. Vi racconto questo aneddoto: sono a Parigi d’estate, è caldissimo, ci sono quaranta gradi. Incontro un uomo con addosso un cappotto pesantissimo, gli occhiali scuri e due valige nelle mani. Mi incuriosisce e così lo seguo. Vedo che entra in un androne, sale le scale e varca la soglia di un appartamento. Sento un urlo. Da lì è partita la mia mente e ho subito pensato: ha dell’acido nelle valigie!

Per “Il quinto elemento”, invece, quali sono state le fonti di ispirazione?

Beh, avevo sedici anni e vivevo in campagna. Quando aprivo la finestra vedevo soltanto erba e mucche. Ho pensato a cosa avrei voluto vedere e la mente ha inevitabilmente cominciato a viaggiare! Dunque…prima di tutto un taxi volante…e così via!!!”

Com’è il passaggio da attori veri a personaggi virtuali?

Per ogni personaggio di sintesi ho sempre un attore di riferimento, quindi non cambia granché! Per la trilogia di Arthur, per i primi cinque o sei mesi ho lavorato con una piccola camera digitale con gli attori. Un approccio teatrale che mi ha permesso di catturare la sensibilità dei personaggi. Per i tre anni successivi ho lavorato con 400 tecnici al computer. Li incontravo una volta alla settimana e mi guardavano come a dirmi “Ehi, chi sei? Questo è il nostro film!!!”

Se i film non sono una delle sue fonti di ispirazione, cosa dice invece di pittura, musica, fumetti, letteratura?

È ottimo cibo che permette di fare qualcosa di nuovo e personale.

Com’è nata ne “Il quinto elemento” la bellissima sequenza della cantante lirica aliena sulle note della Lucia Di Lammermoor?

Oddio, non ricordo! Se bevessi o mi drogassi, ma non bevo e non mi drogo! Ho preso la musica che da sempre adoro e poi volevo utilizzare elementi del passato collocandoli nel futuro e viceversa. La cantante si chiama Plavalaguna, che è il nome di una spiaggia in Croazia in cui sono cresciuto,  ma la genesi esatta della sequenza non la ricordo. Mi dispiace!

Nei suoi film emerge la figura di una donna molto forte.

Penso che le donne siano superiori. Ho cercato di scrivere buone parti sia per uomini che per donne, tentando di non applicare gli stereotipi degli anni ’70, quindi uomini eroici e donne in lacrime. Cerco la debolezza del sesso forte e la forza del sesso debole.

E Moebius (il celeberrimo fumettista Jean Giraud, ndr) quanto l’ha ispirata?

Ho letto i suoi fumetti quando avevo dodici o tredici anni. Li trovo fantastici e sconvolgenti perché valorizzati da un disegno davvero senza limiti all’immaginazione. Ha lavorato a Il quinto elemento per un anno, poi è andato in America e ha cominciato a lavorare per “Guerre Stellari”, ma dopo due mesi è scappato per incompatibilità di approccio. Gli ho lasciato le chiavi dell’ufficio. A volte arrivava alle due di notte per un dettaglio. Ricordo una selezione di giovanissimi designer chiamati a collaborare al film. Prendemmo sette uomini e due donne. A selezione conclusa scoprii che una di queste ragazze era la figlia di Moebius che, però, si era presentata con un nome falso per essere selezionata come tutti gli altri e non avere vantaggi grazie al suo cognome. Siccome i gatti non partoriscono cani, il suo talento era innegabile!

Com’è il rapporto con il compositore Eric Serra, che ha collaborato a quasi tutti i suoi film (eccetto Angel-A, ndr)?

Devi incatenarlo alla sedia e al mixer perché è davvero pigro! Adora lavorare sotto pressione! Necessita di circa sei mesi per l’ispirazione. Poi vuole leggere la sceneggiatura, poi vuole vedere le immagini, poi il montaggio, fino a quando non urlo disperato e gli dico che tra nove settimane comincia il mix. Solo allora lui inizia a lavorare senza sosta urlando contro tutti. In questo preciso momento è legato al mixer per la colonna sonora di The Lady.

È difficile conciliare i ruoli di produttore, sceneggiatore e regista?

Qualcuno qui è madre, figlia, moglie, lavora. Se poi ha l’amante i lavori diventano addirittura cinque! È sempre difficile fare più cose contemporaneamente, ma lo fanno tutti! Scrivere per me è un piacere, produrre è un lavoro facile: non giochi la partita ma stai in panchina a urlare contro gli altri. Il regista è l’unico ruolo davvero difficile che ti succhia il sangue per tutto il giorno. Sono già collassato tre volte mentre dirigevo e mi hanno dovuto portare via con l’ambulanza! Certo, non è un lavoro pesante come quello dell’operaio in fabbrica, però è stressante!

In “Angel-A” cosa voleva esprimere sull’amore?

Amo molto quel film perché parla dell’amore verso se stessi e gli altri. Quando sei soprattutto un uomo, fatichi ad accettare te stesso per come sei. Fino ai 40 anni gli uomini si creano dei film mentali che non corrispondono alla vera realtà. Angel-A è un invito ad accettare se stessi per ciò che si è. In una sequenza la ragazza invita il protagonista a dire “Ti amo” a se stesso. Provateci questa sera. Per trenta secondi guardatevi allo specchio dicendo “Ti Amo!”. Vedrete che non è così facile come sembra!

I suoi cast sono sempre eterogenei e internazionali.

Cerco la persona migliore per la parte. In arte, grazie al cielo, non servono passaporti geografici, non ci sono vincoli se non il talento. In generale ho riscontrato che inglesi, americani e italiani sono professionisti preparati, i francesi meno. Con un attore francese si deve faticare molto. Il discorso vale più per gli uomini, che sono tendenzialmente pigri, mentre le donne francesi sono più professionali.

E il rapporto con rockstar come Madonna, Lou Reed, David Bowie?

Le rockstar si sono limitate a dare la voce ai personaggi della saga dei Minimei. Non complicano il procedimento, anzi, per loro è semplice dare il ritmo alla voce. È il loro lavoro. Ciò per cui sono famosi. Questo non significa che siano per forza bravi attori. Non è quello che viene loro richiesto.

Cosa pensa riguardo al 3D come futuro del cinema?

Ho un nuovo lavoro, quello dell’indovino! Nella sfera di cristallo non vedo nulla. Stiamo parlando di sviluppi tecnologici di cui io sono testimone quanto voi. Adesso il 3D è stato rilanciato. Fa parte della cassetta degli attrezzi del regista. La discriminante è ovviamente l’utilizzo che se ne fa. Il 3D deve avere un valore aggiunto per il film. Ad esempio, Angel-A è in bianco e nero perché è un film basato sui contrasti e il bianco e nero accentua i continui opposti che si confrontano nel film. Più strumenti ci sono meglio è. Per il terzo episodio di Arthur avremmo potuto usare il 3D, ma ho preferito evitarlo. C’erano già due dimensioni nel film, il sopra e il sotto, e non volevo confondere ulteriormente i più piccoli a cui il film è essenzialmente rivolto. Pensiamo a una sequenza in una piccola cucina. Secondo voi necessita del 3D? Se il regista è James Cameron sicuramente sì!!!

 

L’incontro è finito, Luc Besson ringrazia per la partecipazione e comincia docilmente a firmare autografi nel quarto, o quinto, forse sesto, ruolo che si è cucito addosso: quello di star!