Drammatico, Recensione, Serie

IN TREATMENT

TRAMA

Prima stagione
Il dottor Paul Weston è uno psicologo. Dal lunedì al giovedì incontra quattro pazienti: Laura, una ragazza alle prese con un rapporto al capolinea e innamorata del terapeuta; Alex, un pilota che ha bombardato una scuola in Iraq; Sophie, un’adolescente che sembra aver tentato il suicidio e di cui Paul deve valutare la stabilità mentale; Amy e Jake, coniugi conflittuali. Il venerdì Paul incontra la sua supervisor, Gina.

Seconda stagione
Nel nuovo studio di Brooklyn, in cui si è trasferito dopo il divorzio, Paul Weston incontra i suoi pazienti: Mia, avvocato, insoddisfatta della sua vita affettiva; April, studentessa malata di cancro che rifiuta la radioterapia; Oliver, bimbo problematico che patisce la crisi tra i genitori; Walter, anziano manager, licenziato dopo anni al servizio dell’azienda. Il venerdì Paul si incontra ancora con la supervisor Gina, che è ora alle prese con la scrittura di un romanzo.

Terza stagione
Tre pazienti: Sunil, un indiano che ha raggiunto il figlio in America dopo essere rimasto vedovo; Frances, un’attrice che torna sulle scene ma che deve affrontare fantasmi personali e familiari; Jesse, diciassettenne gay, adottato, ma contattato dai genitori biologici. Dopo la chiusura degli incontri con Gina, Paul va da Adele, psicologa, per problemi legati al sonno e al romanzo pubblicato da Gina.

RECENSIONI

COS'E'

In treatment è il remake americano, prodotto per la HBO da Mark Wahlberg, della serie israeliana Be’ Tipul. Lo schema su cui i telefilm si basano è molto semplice e sostanzialmente rispettato in ogni puntata: in uno studio lo psicanalista e il suo paziente parlano. In treatment si fonda, dunque, su un ostentato impianto teatrale che, sulla carta, quella di un prodotto televisivo, sembrerebbe azzardato - se non suicidale - nella sua staticità (è un po' il festival del campo - controcampo): la formula invece funziona in forza della sola parola, di una verbalità, quella dei personaggi, che opera su due livelli che s'intersecano spesso e volentieri: uno soggettivo, costituito da ciò che si racconta e che attiene a quanto accade al di fuori della stanza, così come interpretato e riportato dal paziente; uno oggettivo, concernente, invece, il rapporto tra questi e il terapeuta e che si sviluppa hic et nunc, sotto gli occhi dello spettatore. Va da sé che il fronte attoriale, per una serie così fortemente puntata sull'interpretazione, risulta estremamente curato e quasi sempre persuasivo (Gabriel Byrne, splendido protagonista, ha vinto il Golden Globe come miglior attore nel 2009 mentre Dianne Wiest quello di migliore attrice non protagonista nello stesso anno e l'Emmy per la stagione precedente). La serie è curata (e per molti episodi diretta) dal regista e sceneggiatore Rodrigo Garcia.

PRIMA E SECONDA STAGIONE
La  prime due stagioni - che riproducono il modello originale, non solo episodio per episodio, ma quasi parola per parola - procedono in cicli di cinque episodi, ciascuno presentando un’analisi giornaliera: dal lunedì al giovedì l’analista incontra i suoi pazienti, il venerdì lo schema si rovescia e lo psicanalista diventa l’analizzato. Quattro casi che tornano e si evolvono,  che si ramificano e si incrociano, ciascuno componendosi come un mosaico, creando sottili implicazioni con gli altri e che implacabilmente, fanno emergere, per contrasto, l’analista come il grande protagonista dell’opera. La maschera di perfetta impassibilità che Paul Weston ostenta nei confronti dei suoi pazienti si infrange nei fugaci confronti familiari e, soprattutto, nella decisiva e rivelatoria puntata del venerdì, in cui, finalmente, non solo si getta luce sulla sua vita personale, sui pensieri nascosti del medico nei confronti delle persone in analisi, i riflessi delle sedute sul suo equilibrio personale e la sua tenuta mentale, ma si consente al suo ego, fino a quel momento relegato in un angolo, di affermarsi e mettersi prepotentemente in scena. Le prime due serie rivelano queste caratteristiche come programmatiche: i pazienti non sono altro che emanazioni delle situazioni esistenziali del medico stesso, che narra di sé allo spettatore attraverso le reazioni, più o meno trattenute, manifestate nei confronti degli analizzati; ciascuna di queste storie riflette, insomma, un pezzo sostanziale della sua vita: così la giovane Laura, innamorata di lui, è la rappresentazione delle sue fantasie amorose ed erotiche (al transfert di lei farà eco il controtransfert di lui); quello con la giovane Sophie (prima stagione) e con April (seconda) è un rapporto idealizzato, di cura amorevole, che riproduce quello con una figlia che, nella realtà, Paul non segue quanto dovrebbe; la coppia sul punto di divorziare (Jake e Amy, prima stagione) mette il dito nella piaga del rapporto al capolinea del dottore con la moglie, palesando il difficile momento che l’uomo sta attraversando con una consorte schiacciata dalla sua debordante personalità (non è un caso che essi stessi si sottoporranno a una terapia di coppia); il caso di Oliver, figlio di una coppia separata (seconda stagione) costituisce il naturale prolungamento della questione (il divorzio tra Paul e la moglie, oramai consumato, le conseguenze nel rapporto con i figli); in generale il problematico rapporto che i pazienti manifestano con le figure genitoriali o filiali (Mia, Walter: seconda stagione) riflette il ruolo di padre e di figlio del terapeuta (Paul, figlio di un analista che ha abbandonato la famiglia, affronta con Gina le profonde ripercussioni di questo lacerato rapporto nel suo vissuto). Posto questo sottile gioco di specchi, che delimita con precisione gli ambiti, consentendo allo spettatore di verificare le corrispondenza dell’uno con l’altro, la sostanziale svolta si avrà quando il paziente Alex, da subito provocatorio e invasivo, un soggetto anaffettivo, omosessuale latente, penetra violentemente nella vita di Paul, mettendone a nudo i disastri umani. Le esternazioni dell’uomo, per la prima volta, portano il dentro e il fuori a mischiarsi: professione e vita, medico e uomo si confondono in modo inesorabile. I paletti, che avevano segnato rigorosamente i confini tra gli spazi dell’analista e del paziente, saltano. Non è dunque un caso se i dilemmi di Paul, tutti manifestati nella seduta del venerdì, di fronte al supervisor-guru Gina, si concentrino sull’interrogativo centrale se la migliore terapia sia quella in cui il medico è emotivamente coinvolto col paziente o quella dettata dal distacco e dalla fredda analisi del caso. Le puntate con Gina sono sintesi e risignificazioni non solo dei percorsi analitici constatati, ma anche dell’evoluzione emotiva e interiore del protagonista. Questo aspetto si fa progressivamente più marcato, tanto da far sembrare le quattro puntate che precedono quella dell’incontro-resa dei conti col supervisor, solo un lungo e necessario prodromo: la seduta del venerdì diventa una sorta di lotta ad armi pari, uno scontro tra titani in cui Paul e Gina, i cui trascorsi di allievo e mentore complicano ulteriormente il quadro, sfoderano un repertorio di tattiche che vengono reciprocamente scoperte, ribaltate, inflitte, subite o neutralizzate. In questo senso la seconda stagione se presenta casi forse meno appassionanti, mette molto più in risalto, rispetto alla prima, la figura di Paul: la sua nuova solitudine, la crisi professionale, un processo da affrontare (una denuncia per malpractrice da parte del padre di Alex, suicida alla fine della prima stagione) e le sessioni con Gina, che mettono sul piatto queste e altre ataviche questioni (la decodifica e scioglimento del tormentatissimo rapporto col padre morente), pervengono a toccanti picchi drammatici. La puntata del sesto incontro settimanale con Gina, nella seconda stagione, è il miglior episodio della serie.

TERZA STAGIONE

La terza stagione di In treatment si differenzia dalle prime due: innanzi tutto è integralmente americana, quindi non si fonda su una preesistente serie di Be’Tipul, ma riprendendone il format, crea ex novo storie e personaggi inediti. In secondo luogo si struttura diversamente (ogni settimana prevede solo tre incontri; il quarto episodio è incentrato sulle sessioni di Paul con la psicologa Adele). Sostanzialmente la serie rispetta gli standard consolidatisi e propone tre pazienti che rispecchiano situazioni del vissuto dello psicanalista. Paul, in un processo involutivo lento, ma inesorabile, abbatte ogni barriera con i pazienti trattandoli come amici (Sunil), come figli (Jesse), come confidenti (Frances); la condizione umana di Paul si rivela con chiarezza (e la stagione, giocando a carte scoperte, rivela anche la debolezza del suo impianto): uomo oramai solo, che vede allontanarsi anche il figlio adolescente, col quale tenta invano un esperimento di coabitazione, in bilico tra la volontà di una sana immersione nella realtà e l’istinto primario a proteggersi, Paul Weston riesce a operare con partecipazione solo nelle situazioni dei suoi pazienti nelle quali sa che il suo coinvolgimento è disciplinato e soggetto a regole. Presone coscienza, valutati gli effetti deleteri del suo atteggiamento (il suo paternalismo gli si ritorce contro nel caso di Jesse, che abbandona la terapia proprio quando cominciava a dare frutti; viene manipolato da Sunil) decide di abbandonare la pratica analitica. L'ultima inquadratura lo vede in strada, in mezzo alla gente.

IN ANALISI
Vero e proprio caso televisivo, In treatment presenta almeno tre caratteristiche peculiari:
1) LA STRUTTURA: la serie presenta quattro o cinque (a seconda delle stagioni) trame che, solo apparentemente parallele, finiscono con avere continui punti di contatto l'una con l'altra in un sottile quanto decisivo gioco di richiami, a volte evidenti, a volte sottesi. In questo senso In treatment, attraverso pochi, ma chiari elementi, segnala quanto vediamo come la parte esposta, quella più significativa, di un tutto (l'insieme delle terapie condotte dallo psicologo) che non ci viene svelato, ma che è dato come presupposto. Se poi, come assunto, le sessioni con i pazienti sono strumentali alla delineazione della vicenda dello psicanalista, si può anche affermare che i percorsi dei vari personaggi si sviluppano come sottotrame rispetto al nucleo centrale della narrazione: la vicenda umana di Paul Weston.
2) L'AMBIENTAZIONE: la serie, di norma, rispetta l'unità di luogo, essendo quasi integralmente ambientata nello studio di Paul; questa concentrazione spaziale, di carattere marcatamente teatrale - riconnettendosi ad essa, di regola, anche l'unità di tempo - determina l'importante conseguenza che ogni raro dettaglio esterno acquista sempre e comunque una rilevanza evidente e macroscopica rispetto agli elementi forniti abitualmente.
3) LA NARRAZIONE: I personaggi non agiscono, evolvono, la narrazione essendo quasi del tutto orale; i caratteri non hanno dunque una delineazione netta (il dolore non ha schemi), ma sempre molto sfumata, vengono restituiti per singole parti, tenuti in incubazione per poi sbocciare e rivelarsi (ad esempio Jack, prima stagione, lo conosciamo davvero solo nella sua ultima sessione). L'oralità della narrazione, che si riconnette anch'essa a una matrice teatrale, fa sì che la prossemica, le manifestazioni gestuali, le modalità prescelte per la comunicazione, i comportamenti dei protagonisti, anche quelli apparentemente casuali, costituiscano sempre un elemento significativo, fornendo indizi rivelatori e possibili chiavi di comprensione degli eventi o della personalità dei caratteri: lo spettatore è chiamato in causa, potendo raccogliere tali segni, analizzarli, indagare sulla loro pregnanza, tentare un'interpretazione.

IL RUOLO DELLO SPETTATORE
La chiamata in causa dello spettatore è, dunque, nella strategia della serie, molto evidente e scoperta e si rivela attraverso palesi richiami (gli ovvi freudianismi - lapsus, dimenticanze, evidenti rimozioni, ricorso reiterato  nei discorsi a certe immagini -) o negli indizi disseminati ad arte (ad esempio ciò che avviene nel prologo, che sembra sempre puramente interlocutorio o introduttivo, viene quasi sempre ripreso e contestualizzato nella dinamica della puntata). Queste caratteristiche fanno di In treatment una serie la cui tensione si fonda e fa affidamento sulla volontà dello spettatore non solo di verificare l'effettività di un mondo che è solo ipotetico, in quanto creato dalle parole di un paziente e secondo una prospettiva ineluttabilmente soggettiva, ma anche di scoprire le ragioni che hanno indotto il personaggio a crearlo in quel determinato modo. Quest'ultimo aspetto assume un'ulteriore valenza se ricollegato a quella che è una funzione tipica della televisione quale forum culturale nel quale, in format vari, una serie di argomenti vengono esposti come  testimonianze di differenti mondi, frammenti di provenienza diversa mai sintetizzati. In questo senso ci si potrebbe spingere a considerare In treatment - quale contenitore di tante esperienze di vita raccontate frammentariamente - un serial metatelevisivo. La pregnanza del ruolo attribuito allo spettatore spiega anche perché le prime due stagioni funzionino molto meglio della terza, a prescindere dal progressivo ed evidente degrado nella scrittura di quest'ultima: nelle prime due stagioni l'evocazione dei fatti è sistematicamente volta a perpetuarne l'ambiguità, a mantenere attivo il ruolo dello spettatore come soggetto indagatore e giudicante; nella terza, non a caso molto più aperta al mondo esterno, questo avviene in misura decisamente inferiore: il personaggio di Frances (Debra Winger) esaurisce nella metatestualità i suoi motivi di interesse, il filone di Sunil ha una deriva quasi gialla con soluzione finale (la manipolazione di Paul), il dramma di Jesse ha una chiusa riconoscibile; il cammino di Paul non è affatto persuasivo, mancando di sviluppo graduale: il suo carattere ha un'impennata e un mutamento di segno macrosopico, privo di un'elaborazione che lo renda convincente.