Recensione, Thriller

IN THE CUT

TRAMA

Frannie, professoressa di letteratura, è attratta da un detective che indaga sull’efferato assassinio di una donna.

RECENSIONI

Schegge impazzite di realtà sognata, parole a brandelli su lavagne macchiate di rosso e manifesti ricurvi nei vagoni del metrò, sensazioni furtive e sfuggenti all’ombra delle fanciulle brutalmente sgozzate: la vita di Frannie è un rompicapo che solo una visione definit(iv)a e impietosa come un faro nella nebbia può risolvere. Comincia bene, IN THE CUT: i titoli di testa, come chiazze sbiadite d’inchiostro simpatico, emergono in modo precario per dissolversi all’istante su uno schermo che risplende di luce malata, fra tempeste di petali e opachi ricordi impossibili, mentre una voce femminile distilla su un tappeto di sommesse dissonanze rapinose note hitchcockiane (a piè di pagina?). Purtroppo, il resto del film non è alla stessa altezza. A Jane Campion non importa nulla del thriller inteso come struttura poliziesca: trama banale (il solito girotondo di potenziali maniaci, equamente ripartiti in base al profilo etnico, attorno a una donna prima incuriosita poi sempre più impaurita), svolgimento piatto [il prefinale (im)prevedibilmente ribaltato], (dis)inibizioni sessuali e pulsioni di morte convenientemente a braccetto. L’insieme, va detto, è perfettamente funzionale alla definizione della protagonista – primadonna (inquadrata o comunque in scena per la quasi totalità del film), fantasma feticista, vampiro di esperienze altrui (dalla lingua – i suoi studi sul gergo – al sesso), viandante smarrito (con immancabile bagaglio a mano) in una babele di citazioni tanto incrociate da rendere inutile, prima ancora che impossibile, ogni barriera fra vita e (para)letteratura. IN THE CUT è, come LEZIONI DI PIANO, RITRATTO DI SIGNORA e il trascurato HOLY SMOKE, un viaggio attraverso corpo, anima, brividi di una donna irrevocabilmente sola, (rin)chiusa in un silenzio carico di parole misteriose (in questo senso sono comprensibili – ma non del tutto scusabili – i pedanti riferimenti a Virginia Woolf).
Purtroppo, il film si limita ad allestire allettanti premesse, senza curarsi di svilupparle adeguatamente. La regista punta tutto sulla patinata e virtuosistica fotografia di Dion Beebe, che rende eleganti e inquietanti le strade di una New York ridotta a gigantesca discarica postmoderna: dopo pochi minuti il tutto ristagna senza appello. I dialoghi da fotoromanzo, d’insistita goffaggine, e le interpretazioni legnose [malgrado l’impegno profuso, la Ryan suona improbabile come femme fatale dai (per nulla) segreti ardori, mentre la sempre deliziosa Jennifer Jason Leigh è poco più di un innocuo svolazzo di celluloide] contribuiscono ad ammosciare il risultato. Non mancano idee pregevoli (i sospetti moltiplicati negli specchi, il succedersi delle precipitazioni) e siamo alquanto lontani dal molesto didascalismo di una Breillat e/o dalla melassa soap-istica profusa da Chen Kaige in KILLING ME SOFTLY (per rimanere nel filone “donne in cerca di guai”), ma IN THE CUT è, nel complesso, un luccicante buco nell’acqua.

IN THE CUT è il colpo di rasoio di un serial killer sulle sue vittime, ma soprattutto: il taglio per eccellenza, lo spacco vaginale, la via maestra verso l’interiorità femminile. Metamorfosi kafkiana di un corpo: prima timidamente rannicchiata in sé stessa, Frannie –come timorata di dio- si limita al pensiero degli uomini, piegandosi in un solitario conato autoerotico. Dopo: essa riduce l’altro sesso in manette, si adagia sopra il suo corpo per “scoparsi da sola”, lungi ormai da ogni freno inibitore. Mi sento di affermare che la prima anima del film (leggi: il primo tempo) rappresenta il desiderio: inespresso e sfumato, come la classica rappresentazione woolfiana della donna che muore (più che fisicamente in the cut, all’interno). Frannie si trascina spettrale per la pellicola, incrocia studenti, ispettori e spasimanti, non succede quasi nulla: è condannata all’immobilità, tanto da invidiare la sua amica Pauline, sorta di vestale del desiderio situata appena sopra un bordello. Cosa succede dopo: la realizzazione, il progressivo lasciarsi andare della protagonista, che sembra immolare il suo corpo come oggetto di piacere (per sua stessa ammissione: il sesso in quanto tale), senza curarsi se l’uomo nel suo letto sia il classico serial killer. Sullo sfondo, il giallo (apparentemente) di poco conto, che si traduce nel devastante il climax degli omicidi: il primo è appena intravisto in fotografia, il secondo già più sbirciato durante il ritrovamento, il terzo esplode con agghiacciante potenza proprio davanti alla protagonista. Simbolici elementi (il dono di un anello, un romantico pattinaggio sul ghiaccio) mutano in incubi spaventosi, la leggera normalità fin lì paventata diventa crudele distorsione, nell’occhio come nella percezione della protagonista (lo scambio di persona finale). Il colpevole poteva essere chiunque, tanto che la sua reale identità passa in secondo piano. Meg Ryan si reinventa trovando un’inedita, conturbante dimensione; i vari Ruffalo, Damici e la Jason Leigh passeggiano intorno al suo personaggio, che è l’autentico taglio inflitto dalla Campion. La regia indugia morbosamente su sguardi e pupille spesso sfocando tutto il resto, come se gli occhi fossero l’unico sentiero per giungere alla mente, penetrare la fessura, sfiorare la perversione. Più che thriller, storia di una donna e del suo incontro con l’estremo (piacere), un’elucubrazione giocata sul sottilissimo filo cultura/istinto: se “sapere non serve a un cazzo” (secondo Malloy), sentire significa rotolare vorticosamente verso le tenebre (il volto stravolto di Frannie dopo l’ultimo delitto). Ma non è vero neanche questo, vista la sinistra funzione della conoscenza: TO THE LIGHTHOUSE di Virginia Woolf è il losco macello di un assassino. Frannie, vuoi sposarmi?

Una suadente versione di "Que sera sera" scivola sui titoli di testa mentre dettagli di una New York inconsueta si accompagnano a una pioggia di petali che incanta personaggi e spettatori. La magia finisce con la comparsa del titolo, che fuoriesce dalla scia insanguinata delle lame di un pattino. Dopo, infatti, le idee, la scelta della immagini, la recitazione, volgono in stucchevole noia. Il percorso intimo e doloroso della protagonista, alla ricerca di una consapevolezza in grado di liberarla da un perenne stato di insoddisfazione, incappa purtroppo in una becera storia gialla. Affrontare un "genere" cinematografico presuppone di accettarne le regole, che per essere scardinate devono quindi prima di tutto essere comprese. Jane Campion, invece, sceglie un taglio ambizioso e molto personale che finisce per collocare il film in un limbo poco comunicativo: la ricerca dell'assassino non intriga e delle motivazioni della protagonista, esplicitate in prevalenza nel suo vagare con aria attonita, sappiamo poco e ci interessa ancora meno. La bislacca sceneggiatura si frammenta cosi' in inutili fotogrammi di raccordo, necessari per provare a dare un senso al plot thriller moltiplicando gli indiziati e insinuando il sospetto (ma nella soluzione del mistero prevarra' comunque la delusione), e non riesce a dare sostanza ai personaggi e al loro interagire. La regia, tutt'altro che trasparente, si perde in vezzi d'autore che finiscono per risultare gratuiti, a partire dall'utilizzo manuale, e alla lunga fastidioso, della macchina da presa. Anche la proverbiale capacita' della Campion di mettere in scena la visceralita' delle pulsioni, si limita a qualche amplesso vedo-ma-soprattutto-non-vedo, tra l'onirico e lo sfocato (imperdonabili le trite manette), e a dialoghi forzatamente sboccati, che sembrano piu' che altro un indigesto contentino per la presunta "pruderie" del pubblico. Quanto agli interpreti, Mark Ruffalo bucava lo schermo in "Conta su di me" ed e' qui ridotto ad anonimo truzzo latino, Jennifer Jason Leigh e' sprecata in un decorativo ruolo sacrificale, Kevin Bacon ha sempre un'efficace presenza ma e' alle prese con un personaggio tutt'altro che indimenticabile. Tutto il film, pero', poggia sulle spalle larghe di Meg Ryan, che ha il coraggio di imbruttirsi, di affrontare scene di nudo e di calarsi in un ruolo non facile e sgradevole (pare rifiutato da Nicole Kidman qui nelle vesti di produttrice); non basta, pero', la volonta' di scrollarsi di dosso l'etichetta di fidanzatina d'America per essere convincenti. E la sua scelta sembra piu' che altro un espediente di marketing per accendere i riflettori su un film con ben pochi spunti di interesse, capace di scontentare un po' tutti: chi cercava un onesto giallo, chi un punto di vista femminile con cui confrontarsi, chi un indefinibile altro, senza comunque il peso, a tratti insostenibile, della pretenziosita'.

Voglio
essere il sorriso
e il dente
Voglio
essere il dente
e il coltello
Voglio
essere il coltello
e il taglio
in un unico
bacio
rosso
(O riso e a faca - Tom Zé)

L'odiosa Campion riesce nel suo intento di un film impressionista, stilisticamente compiuto e convincente e che il sottoscritto ne tragga piacere non è un segno di vecchiaia incalzante, né la premessa di un revisionismo per il quale, peraltro, latitano i presupposti (SWEETIE era un debutto solo interessante, UN ANGELO ALLA MIA TAVOLA  un discreto sceneggiato, LEZIONI DI PIANO era e rimane un filmaccio, RITRATTO DI SIGNORA un ignavo polpettone di calligrafica anticalligraficità - per HOLY SMOKE mi mancò il coraggio anche se adesso mi sento maggiormente disposto -). In IN THE CUT oggetti si perdono e si ritrovano all'improvviso, compreso un thriller che a volte c'è ed altre no, abbandonato con studiatissima leggerezza nei depistaggi di un'opera che tende evidentemente ad altro e tocca il dentro di tutto, ché della suspense non sa davvero cosa farsene, usando l'armamentario giallo e thrilling come sfondo esteriore, strada spianata da percorrere a rotta di collo e senza attenzione al panorama, per tuffarsi dentro i personaggi, mentre le loro storie si lasciano sfilacciare, sezionare, incellophanare e servire in pezzi. Un film in cui contano le mani che si toccano più che un sospetto che si innesca a corrente alternata; il soggettivo vivere gli eventi (per frammenti che focalizzano il dettaglio, brevi sequenze molto mosse) più di un coerente e lineare ritornare tramico; un sesso che si vede, che si pensa, che si parla e che si fa più delle efferate gesta del solito killer seriale che impressiona vivissimo rosso sulla pellicola... Un film che sfregia col rasoio di un nudo impietoso, e già appassito, l'immagine della Meg Ryan fidanzatina rompiballe (ha una clitoride anch'ella, perdiana: parliamone una buona volta), in cui la Campion, mai così precisa e immersa nella rappresentazione, sa quale taglio dare a tutte le immagini, non si ferma mai (i segnali di STOP vengono tranquillamente calpestati), sonda l'animo della sua protagonista senza agrodolci, indigesti femminismi ma con misura inedita e azzeccati sottotesti (le voci che cantano, quasi sempre di donne: dalla Gibbons del trailer a Lucinda Williams, e poi Annie Lennox, Diana Krall, Marie Daulnie degli Zap Mama etc), fa masturbare la sua protagonista e si masturba anch'essa, fantasticando sugli anni 70, e per questo onanismo, di una celluloide orgogliosamente fine a se stessa, usa un coltello affilato che ha già fatto vittime.

“L’aspetto individuale, i segni caratteristici sono
realtà puerili. Sotto di essi tutto è buio, diffuso,
insondabilmente profondo”

 Virginia Woolf, Gita al faro

Un cinema quello di Jane Campion che continuiamo a non amare e che rischia di infliggerci, attraverso In the Cut, l’ennesimo topos (poco) critico sulla sensibilità femminile. In realtà l’eccedenza estetica ovverosia la sovrabbondante disseminazione dei significanti e quegli psicologismi che rischiano di sovraccaricarne gli effetti di senso, tratto peraltro distintivo del cinema della neozelandese, ci costringono a pensare e ripensare In the Cut come a un’opera che pretende di costituirsi, di venire alla forma, a partire da una programmatica eterogeneità di elementi.  Il carattere volutamente disomogeneo del film (e qui si potrebbe scendere in aperta querelle con coloro che hanno imputato all’opera una scarsa compattezza e organicità, convinzione viziata dalla opinabile presupposizione dell’impianto thriller come impalcatura tipologica della pellicola) fa parte di un disegno preciso da parte dell’autrice: dipingere o descrivere (considerando il gioco letterario come uno dei tanti temi affrontati dal film) il reale rappresentandolo, o meglio ri-presentandolo, sotto forma di flusso immaginifico in cui un’unità di senso viene raggiunta mediante un lavoro di ri-figurazioine del molteplice fenomenologico. La materia e la forma del significante, per scomodare Hjelmslev, divengono espressione di quella sublime incertezza che è l’esistere.  Le pecche, comunque notevoli, sono casomai rintracciabili nello stile fin troppo accademico e indulgente alla maniera adottato dalla Campion: gli sfocati scontornamenti delle figure umane, degli oggetti, le insistenze dei primissimi piani sui volti, sui dettagli per rendere conto del dis-correre su una natura non-in-differente, il traballare delle riprese effettuate con la m.d.p. a mano nel voler cogliere l’oggettiva insicurezza delle incerte dinamiche della suburbanità; la fotografia troppo debitrice della straordinariamente efficace chiaroscuralità del Klute di Pakula[1], altro sorprendente film sull’incertezza programmatica o, per altri versi, sulla programmaticità dell’incertezza, dei soggetti, degli oggetti, dei corpi, degli sguardi, delle cose, delle psicologie (l’omaggio al taglio di capelli di Bree Daniels, la conturbante squillo interpretata da Jane Fonda, tanto per non sottrarsi alla disseminazione dei significanti accennata, riproposto da Meg Ryan non sembra affatto casuale). Il continuo fluttuare visivo e diegetico tra un’interiorità monologante (quella di Frannie, quella di Jane Campion) e un discorso indiretto libero (quello del cinema che (si) mostra e (si) annuncia a prescindere dal suo autore). Operazioni che si inseriscono “nel solco” di un discorso palesemente esemplare, ma per questo forse anche palesemente giocoso: l’illusione di percorrere tematicamente il limine ludico che separa (ma anche unisce) il cinema e la letteratura, la finzione e la realtà, il letterario (come prosa o come poesia del reale) e il semplicemente fattuale. E’ anche una sorta di necessità da parte della Campion di inseguire la e ri-insinuarsi nella traccia (marcata, solcata, inflitta) del paradosso della rappresentazione, come il vulnus vero e finto contemporaneamente delle “attese” dipinte da Lucio Fontana, ferite vere e proprie procurate nella carne della rappresentazione, simboliche messe in abisso del senso, semiotiche trappole dello sguardo che generano ferite e spaccature nel trompe-l’oeil della nostra percezione e della nostra organizzazione concettuale, feritoie, anche e soprattutto, che consentono di allargare l’orizzonte del senso.
Il cinema(-)mente ancora una volta. Il cinema-mente Jane Campion dispiega i suoi dispositivi disponendoli su un piano mentale prima che estetico-cinematografico, laddove si può misurare la distanza tra immaginario e immaginifico. Ma anche un cinema che (ci) mente, ancora, costitutivamente, inevitabilmente offrendoci incessantemente l’illusione del tempo e dello spazio, l’illusione suprema che la fantasmizzazione della realtà corrisponda alla realtà tout court. Un cinema che mente (compiacendosi, come autogodimento del testo) soprattutto sui corpi, sulle dimensioni, e sulla fisica in genere. Ora, fermo restando il carattere eminentemente menzognero del cinema al quale la Campion, come altri importanti cineasti (Cronenberg, Lynch, Fellini, Greenaway e Kubrick su tutti), rivolge le sue ludiche attenzioni, rimane interessante approfondire l’ingranaggio di questi dispositivi mentali della macchina cinema campioniana, il funzionamento cioè e la messa in opera del significante cinematografico. Il com-plesso di segni elaborato come strategia testuale di In the Cut si inscrive in una circolarità simbolica in quanto il film si apre sulle note di Que sera sera e su quelle stesse note si chiude (con il rannicchiamento in posizione fetale di Frannie accanto al suo uomo). Se da una parte il celebre motivetto di Livingstone e Evans richiama non solo e non tanto la Doris Day di L’uomo che sapeva troppo bensì, metonimicamente, ma anche per antonomasia, il thriller come genere prediletto da Hitchcock che ne è la sua massima espressione, dall’altra introduce già, a livello subliminale, il tema dell’incertezza. E abbiamo in precedenza suggerito come In the Cut si ponga, seguendo la terminologia peirceiana, come interpretante esemplare del concetto di incertezza. Interessante notare anche come l’apparente insipienza della canzoncina Que sera sera nasconda in realtà un preciso rimando alla tematica lacaniana dell’Altro (“When I was young…I asked my Mother…I asked my Teacher…What will I be?…”). Dietro all’interrogativo “Che sarà?”, che traduce un meno vago “Che sarà di me?”, ovvero “Cosa diventerò?”, si cela implicitamente la domanda fondamentale “Che cosa voglio?”, “Qual è il mio desiderio?”. Interrogativi che vengono rivolti all’alterità supposta sapere (la madre, l’insegnante), che implicano una risposta a partire dall’Altro.
Uno dei primi sintomi dell’incertezza risiede proprio nel taglio diegetico del film: l’impianto del thriller è risibilmente debole, è incerto, in una parola: non funziona. Era la Campion stessa che ci aveva collocato in questo “solco” semiotico con Que sera sera, ed è proprio la Campion che sembra voler giocare con le aspettative dello spettatore depistandolo sulle reali intenzioni del film che non sono nella maniera più assoluta quelle di fossilizzarsi sul rigido schematismo della struttura del thriller. Si impone con una certa evidenza la volontà da parte dell’autrice di dire altro, di andare ben oltre il thriller, di spostare di volta in volta il senso del film (anche topograficamente da un’ipotetica centralità ad un’altrettanto ipotetica periferia) strutturando l’opera su detournements progressivi. La pellicola assume la configurazione di un lungo e ininterrotto flusso di (in)coscienza in cui la Campion muove (e gira) da un’istanza desoggettivizzante: è il puro fluire filmico che nel suo faticoso e oscuro incedere sembra voler “tagliar via” il soggetto, i soggetti, per poi volerli reinserire come sguardi, come soggettive (appunto), come parole (quelle parole che sono in grado di riorganizzare (lo slang), di sistematizzare (la grammatica comune), di rianagrammare (la poesia) il flusso in-differenziato delle cose, della vita), come focalizzazioni interne ad un discorso che si articola su tali soggetti ma è fondamentalmente “libero” e svincolato da ogni soggettività; un flusso di materia e memoria (anche e soprattutto cinematografica) che si viene a costituire come un amalgama di elementi i più disparati: cose e persone, volti e oggetti, liquidi (acqua, whisky, urine, sangue) e solidi (corpi, pistole, mobilio, suppellettili), colti in primi piani, dettagli, piani medi, pervasi da una liquida oscurità, che sembrano appartenere inquietantemente a uno di quei famosi merzbilden di Schwitters. Emerge comunque con una certa evidenza la struttura chiasmatica dei personaggi che abitano la lividezza dei sobborghi newyorkesi: Frannie e l’omicida vivono nella gabbia nevrotica della simbolica freudiana del fallo, Pauline e il detective Malloy che invece incarnano il reale del godimento, i quali non hanno nessun immaginario che non riescano a soddisfare concretamente. Illuminante in tal senso, pur attraversando trasversalmente questo chiasmo, e pur innestandosi marginalmente “nel solco” pellicolare, la figura dell’ex fidanzato di Frannie interpretato da un convincente Kevin Bacon che assolve la funzione di sembiante simbolico del disagio psichico, ovvero serve a richiamare l’attenzione su uno degli assi semantici del film costituito dalla complessa questione della (non) adaequatio psichica. Per ammissione della Campion In the Cut è anche un film sull’elaborazione delle fobie dell’essere umano, ma risulta fin troppo evidente che il discorso filmico si focalizza su un tipo particolare di fobia costituito dalla paura di castrazione in relazione al complesso edipico (maschile e femminile). La paura di castrazione di Frannie che si annuncia nelle straordinarie, hitchcockiane, sequenze oniriche, diviene paura di castrazione del desiderio. Il desiderio di Frannie è “indicibile”, è un fantasma (onirico) che si ripropone come desiderio di femminilità negata (esemplare nel sogno  l’identificazione con la madre che viene tradita, e con la donna del tradimento a cui vengono tagliate le gambe dal padre-assassino-castratore-dei desideri femminili); da ciò deriva tutta la sua diffidenza nei confronti dell’universo maschile, la sua incapacità di avere un rapporto con un uomo che non sia morboso. E’ su questa irrisolutezza edipica che si costruisce l’incerta personalità di Frannie la quale cerca di sublimare l’indicibilità del suo desiderio, cioè la sua impossibilità di definire il suo desiderio (l’oggetto a piccolo di Lacan) mediante la poesia e la scrittura in genere, che, come per Jane Campion rappresenta un modo per dire altro, o, meglio ancora, per dire l’Altro. Anche la personalità del maniaco omicida, collega tra l’altro del detective Malloy, si costruisce a partire da un Edipo irrisolto in quanto le sue vittime (tutte donne, come spesso avviene per diversi assassini seriali) appartengono a una tipologia femminile circoscritta: la donna castratrice e più precisamente “la donna che divora il pene” (la prima vittima, la ragazza “fellatrice” della toilette del Red Turtle e Pauline che vuole inglobare il pene, vuole “sentirselo dentro”). E’ ipotizzabile, anche se nell’economia del film non riveste un interesse precipuo, che l’omicida abbia tendenze omosessuali in quanto nel suo fantasma di perversione desidera la donna “fallica” pre-edipica, la madre essenziale, l’essere rassicurante, dispensatrice d’affetto e di attenzione, ciò che spiegherebbe la predilezione per le donne grasse che appagano simbolicamente con la loro sovrabbondanza morbida e carnosa il desiderio sessuale maschile, portandolo a detestare la donna determinata dal Penisneid, la “donna invidiosa che vuole il suo pene”, la donna castratrice, appunto. Nel suo delirio di castrazione l’assassino “disarticola” l’oggetto donna, lo smembra, lo decostruisce per disattivarne l’elemento castratore e lo fa partendo dalla gola, zona che simbolizza la fagocitazione del fallo, mediante un taglio. Vediamo come tutti gli elementi di questo fluire filmico si tengano: la gola è anche la sede delle corde vocali e dunque della voce, della parola ovvero di quello stesso significante verbale attraverso cui Frannie tentando di dar voce al suo desiderio organizza il mondo e i suoi allievi attraverso lo slang cercano di addomesticare le asprezze di una realtà che tende ad  escluderli, che hanno comunque compreso che il mondo è una questione di linguaggio.
Il poliziotto omicida è stato defallicizzato del suo oggetto: gli hanno sostituito la pistola vera con una ad acqua (i liquidi, i solidi) e perciò rielabora la metafora della woolfiana “gita al faro” mediante un feticcio che pertiene alla simbolica del fallo. Imperfetto, incompiuto e “inadeguato” finché si vuole questo ultimo lavoro della Campion, e tuttavia abilmente programmatico, come si diceva, nel costringerci a ripensarlo nei suoi depistaggi costitutivi, nelle sue pieghe inattese (altro significato del termine “Cut”), attraverso sentieri interrotti e ripresi, strade perdute e mai definitivamente ritrovate. Un cinema che ci obbliga alla superficie formale e nello stesso tempo scorre sotto traccia, sotto pelle, come pellicola che si illude e ci illude di scorrere fluidamente mostrandosi nel taglio delle cose, ovvero un cinema (che) mente.

[1] Il direttore della fotografia di Klute (da noi Una squillo per l’ispettore Klute) era Gordon Willis