TRAMA
Andrea, un giovane annoiato da una vita che gli ha concesso tutto, prova a lasciarsi dietro le spalle il peso dell’angoscioso nulla di quel tipo d’esistenza entrando in un seminario gesuita dove compirà un percorso spirituale fatto di meditazione e solitudine, tra dubbi religiosi e rigori dogmatici.
RECENSIONI
Costanzo non sembra voler sc(r)ostare la dimensione di “privatezza” dal/del suo cinema, e anche in In memoria di me, così come in Private, è l’esplorazione del limine spaziale che si restringe progressivamente (ma anche regressivamente) in zona perimetrata, angolo oscuro, recinzione – appunto – privata, punto buio da cui guardare senza essere visti (l’armadietto di Private), riflettere senza essere riflessi, a investire di senso lo sguardo del cineasta. Il regista disegna con tratto brunelleschiano le architetture di luce e di ombre che delimitano lo spazio figurale in cui racchiudere le penombre dei movimenti delle incerte e scontornate figure che lo abitano. All’interno dell’istituto benedettino che accoglie i seminaristi gesuiti nel suo antro geometricamente implacabile prende corpo (architettonico) il distanziamento dal mondo, Babele e Babilonia distruttrici della verità rivelata, affidato alla rielaborazione interna, individuale dei soliloqui che intervallano silenzi e parole tra orazioni e preghiere. Separazione da un esterno materiale e psicologico, cesura da tutto ciò che è altro, spaziatura originaria di una presunta differenza ontologica tra io e mondo, territorio intimo e dislocato di una chora interiore, di una regione isolata dove potersi specchiare nell’insondabile abisso del formidabile al di là di ogni possibilità di speculazione dimostrativa e positiva. Horror dell’anima che segue i passi notturni e umbratili della teologia nella speranza di una garanzia teiologica (del theion come divinità del divino), nel vano tentativo di scandagliare con timore e tremore la passione del cristo sulla croce e tutta quella serie di paurosi paradossi della fede che costituiscono l’aspetto kierkegaardianamente terribile della religione cristiano-cattolica. La chora come oikos insicura di un dio debole e tuttavia terrifico, che spaventa per il suo silenzio (Bergman), per il suo disamore, per il suo nascondimento, per l’essere il nulla dietro la maschera del divino, per la sua indifferenza come pericolo di reduplicazione dell’indifferenza del mondo (“Non stiamo cambiando il mondo, lo stiamo solo replicando”), la kenosis inspiegabile che mette in fuga i facili schematismi di un cristianesimo inquadrato come agàpe (straordinaria la sequenza finale con la dipartita di Zanna che lascia il monastero liquefarsi nell’azzurro dello sfondo, dopo il bacio (anti)gesuitico pieno d’amore), il mistero indimostrabile di un dio non attingibile attraverso sillogismi filosofici, i dogmi di quello stesso dio che andrebbero studiati meglio non per comprenderlo ma per meglio fronteggiare gli integralismi nelle rinnovate guerre di religione, esercizi spirituali che già ab origine si erano trasformati in erudito tentativo di razionalizzazione del metafisico. Un fondamentalismo in cui e per cui non è possibile raggiungere il fondamento se non attraverso percorsi apofatici, negativi, o forse mistico-fideistici (il credo quia absurdum di Tertulliano). Partendo dal e tradendo (come è giusto che sia) il romanzo Lacrime impure di Furio Monicelli, lo sguardo di Costanzo diviene inquieto pedinamento (con grevi e cruciali inseguimenti musicali di Alter Ego e Crivelli) bruciante urgenza di rinvenimento delle tracce di disperazione dell’uomo nei confronti di ciò che lo trascende, dell’uomo senza dio ma anche dell’uomo con dio, l’experentia terribilis che non mette al riparo, che non rende indenni pur nell’apparente isolazionismo protettivo della capsula mundi dell’istituto religioso, nell’“epocalità” (conseguentemente all’epoché effettuata) di quella scelta, e nella sua memoria.