TRAMA
La fabbrica Perrin, un’azienda specializzata in apparecchiature automobilistiche dove lavorano 1100 dipendenti che fa parte della tedesca Schäfer, firma un accordo nel quale viene chiesto ai dirigenti e ai lavoratori uno sforzo salariale per salvare l’azienda. Il sacrificio prevede, in cambio, la garanzia dell’occupazione per almeno i successivi 5 anni. Due anni dopo l’azienda annuncia di voler chiudere i battenti. Ma i lavoratori si organizzano, guidati dal portavoce Laurent Amédéo, per difendere il proprio lavoro.
RECENSIONI
In uno dei rari e brevissimi momenti in cui è colto nel privato, il sindacalista Laurent osserva delle foto sullo schermo del computer. Un'ecografia del nipotino in arrivo, due foto della figlia, un selfie di quest'ultima assieme al suo uomo, una che la raffigura mentre bacia un peluche di un grosso panda. E poi l'ultima, in cui c'è proprio lui, Laurent. A differenza delle precedenti però, questa non è una foto scattata in una situazione privata. Non è un primo piano, non è un selfie, non è un ritratto, non è un'immagine dominata solo e unicamente dalla sua figura. C'è un mondo in fermento attorno a lui, un mondo che si espande ben oltre i limiti dell'inquadratura. Ci sono corpi attorno a lui, persone che condividono la stessa battaglia e le stesse sofferenze. (S)conosciuti. Nella foto che lo riguarda, uno scatto rubato mentre si trovava in mezzo agli operai e compagni di lotta, Laurent è un volto tra i volti. Ed è proprio su questa foto (non su un primo piano, non su un'immagine che lo elevi a protagonista isolato e indiscusso della scena) che una didascalia aggiunta dalla figlia recita «Mon héros!», il mio eroe.
Insomma, in questa guerra sindacale per il lavoro e per la dignità di più di mille operai, l'eroismo non è mai gesto straordinario del singolo, bensì, prima di tutto, azione e pensiero collettivi. Mentre all'individuo non sono consentiti che brevi lampi di riflessione (ed emozione: quella lacrima) solitaria e sempre relegati alla dimensione quotidiana, è la massa, o perlomeno il gruppo, a prevalere. Ecco allora che in un film che mette in scena una guerra combattuta quasi interamente con l'arma del dialogo, per riflettere sulla potenza del dialogo e sulla disperata ricerca di un dialogo tra operai e padroni (ma anche tra le diverse fazioni interne alla lotta sindacale), il rifiuto delle forme e delle distanze tipiche del tradizionale campo-controcampo non può che essere un gesto politico. Qui non sono chiamati in causa due soli personaggi, ma una moltitudine. Ancora, non è l'azione del singolo ad essere rilevante, ma quella del gruppo. Mentre due o più parti si scontrano apertamente, Brizé riempie lo spazio dell'inquadratura di corpi e volti, rendendo in questo modo lo spettatore parte attiva di un (tentativo di) dialogo dalle conseguenze vitali. C'è sempre una nuca fuori fuoco ad oscurare parte dell'immagine, ci sono corpi dietro e davanti al soggetto che in quel momento prende la parola, volti che dimostrano approvazione o rifiuto delle idee e delle opinioni al centro della discussione.
Benché si tratti ancora di una guerra dettata dalla legge del mercato, Brizé non concentra più lo sguardo su un solo uomo al fine di sondarne la misura. Il corpo è lo stesso, quello di Vincent Lindon (non esistono ancora aggettivi che riescano a descriverne in modo adeguato la bravura), ma diversa è la funzione: lì protagonista (e non solo in termini meramente narrativi ma anche figurativi: la sua figura dominava lo spazio), qui portavoce e motore di un movimento di protesta ben più ampio e complesso. Come nella foto di cui sopra, il suo è sempre un volto in mezzo ad altri volti e come e meglio de La legge del mercato, il fatto che sia l'unico attore professionista del cast non è mai d'ostacolo ad una rappresentazione in cui si cercano «immagini che traducano un'idea di realtà, che diano allo spettatore l'impressione di stare guardando qualcosa di veramente accaduto» (Film Tv N.46, p.7. Sono parole di Stéphane Brizé, raccolte nella bella intervista di Marianna Cappi). Lì insomma i silenzi carichi di significato, qui le parole e, quando queste non sono sufficienti, lo scontro, l'azione.
Come si sarà ormai intuito, En guerre è anche un film sulla comunicazione, sugli spazi della comunicazione. Sulla ricerca di un dialogo per raggiungere il quale si è disposti perfino a perdere tutto. E ancora, su una ricerca che si blocca solo quando l'esasperazione porta alla violenza. A quel punto, e solo a quel punto, si sarà costretti a ripartire dal singolo, a ricominciare da un gesto di violenza estrema capace non di risolvere la situazione, ma solamente di riaprire il dialogo. E non è un caso che Brizé scelga di mostrare tale gesto attraverso lo schermo verticale di uno smartphone: come a dire che non c'è più spazio per altri interlocutori, non c'è più spazio per un confronto dialettico di alcun tipo. A seguire, finalmente, il silenzio dei singoli compagni di lotta di Laurent, uniti dalla dissolvenza incrociata e ora protagonisti solitari dell'immagine che li riguarda. Perché se la lotta è di tutti, il dolore è di ciascuno.
