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TRAMA
Diario di viaggio, tra Rimini e provincia, alla scoperta di ciò che resta della produzione artistica degli allievi riminesi di Giotto.
RECENSIONI
Davide Montecchi si è distinto con l’horror padano In a Lonely Place, vincitore di numerosi riconoscimenti a livello nazionale e internazionale. Il documentario pare un deciso cambio di rotta. In realtà le tensioni messe in scena sono affini e lo stile continua a prediligere la verità dei luoghi giocando con le geometrie, la luce e i suoni. A cambiare è quindi più che altro il contenitore, le ossessioni rimangono le stesse. La novità è la presenza dell’autore in prima persona, ma è solo uno stratagemma per dare allo spettatore un alter ego e consentirgli di entrare in contatto con una realtà poco conosciuta e all’apparenza ostica: la scuola pittorica riminese del ‘300. Una scuola di cui sono rimaste poche preziose testimonianze, nata e sviluppatasi solo per una cinquantina di anni in seguito al passaggio di Giotto a Rimini, intorno al 1303, come tappa intermedia prima di raggiungere Padova al servizio del banchiere Enrico Scrovegni. Durante il soggiorno nella città romagnola dipinse un ciclo di affreschi, andato perduto, e un crocefisso, invece ancora conservato, e la sua arte fece proseliti condizionando gli artisti del luogo. Una piccola porzione di tempo e di produzione pittorica andata in gran parte perduta a cui il documentario cerca di dare, più che visibilità, significato. L’approccio, coadiuvato anche dal magnetismo della colonna sonora, è quasi da thriller. Il regista si mette infatti in scena impostando la scoperta del territorio e dei suoi tesori come un’indagine ispirata da suggestioni in cerca di uno sbocco. L’urgenza di scoprire e di capire diventa il filo conduttore dell’opera e consente immediata empatia con il pubblico. Il documentario finisce quindi per stare stretto a Montecchi, che spazia da considerazioni personali a interviste con esperti del settore e inserisce visioni a camera fissa della città di Rimini e dei dintorni splendidamente fotografati. Dove la materia si fa più vibrante, e la ricerca più ricca di spunti, è però nella messa in scena dell’arte e nella riflessione sottesa ai condizionamenti della percezione, fino a un finale, che è meglio non svelare, in cui il cambio di prospettiva arriva come un colpo di scena. Curioso parlare di colpo di scena in un documentario, ma Montecchi esce dal genere di riferimento e rende intimo il suo percorso trasformandolo in qualcosa di difficile catalogazione. L’approdo punta a riscoprire la sacralità delle immagini, a dare voce alla spiritualità e trova nella vertigine della contemplazione echi del passato in grado di riverberarsi ancora nel presente grazie al potere evocativo della memoria. La chiusa pessimista confida nella bellezza come unica possibilità di salvezza per il futuro. A noi cercarla anche dove non sembra essercene traccia.
