TRAMA
Davud è un giovane incompreso e irrequieto in cerca della sua “vera” famiglia, coloro che nel profondo sente porteranno amore e significato nella sua vita. Quando, nel corso di una giornata, si trova a vivere una serie inaspettata di incidenti, che risulteranno fatali per diverse persone, riemergono ricordi invisibili, vicende e preoccupazioni. Davud è catapultato in un viaggio all’insegna della scoperta, nel quale non riesce a riconoscere la sua “metà mancante”, fino a quando arriva ad accettare il fatto che vivere in pericolo è il suo destino, che la morte avrà sempre la meglio rispetto alle sue vicende personali e che liberarsene sarà la sua iniziazione per addentrarsi appieno nella vita. Dopo avere intrapreso un cammino in divenire, alla fine Davud ritorna nel luogo dove ha sempre vissuto. Qui trova l’Amore ad attenderlo, ma forse è troppo tardi.
RECENSIONI
Cos’è questo film? Un road movie simbolico ché il vagabondare di Davud non è altro se non un viaggio interiore - che appartiene alla dimensione dello spirito e non alla realtà - alla ricerca di una dimensione autentica che lo accolga, una famiglia “vera” rispetto a quella dalla quale diparte il suo cammino e alla quale, quasi fatalmente, finirà col tornare. Un percorso che il regista mette in scena secondo logiche che, solo perché sono diventate prassi in certo teatro (testi letterari, movenze innaturali, didascalie enfatiche), non significa che gli appartengano in esclusiva. In Beetween Dying ci ricorda, allora, che il cinema può tutto, che non esistono formule assolute alle quali consacrarlo, che qualsiasi linguaggio scelga per esprimersi, questo costituisce una possibilità, non un protocollo incontrovertibile, per quanto consolidato.
Così il regista imbastisce un libero cerimoniale psicanalitico, in cui ogni gesto, ogni parola scivolano sulla superficie delle immagini e comunicano a un livello profondo. Baydorov procedendo a cadenza bassa, per intuizioni figurative e aneddotica sfuggente, in bilico tra realtà e fantasia, dà vita a un incanto fascinatorio che impone tempi e sguardo coi quali lo spettatore deve essere disponibile a misurarsi. Il suo discorso rappresentativo si colloca su un piano artistico di austera armonia che sembra appartenere a un’altra epoca e a un cinema che sembrava estinto (quello con l’opera di Theo Angelopoulos è un confronto ineludibile), traducendosi in un film di estetica squisita, poetico, visivamente potentissimo.