TRAMA
Johnny e Sara lasciano l’Irlanda, partono per gli Stati Uniti con le loro figlie, dopo la morte del loro terzo genito Frankie. La terribile esperienza pesa su tutti i membri della famiglia ma la nuova vita nella Grande Mela porterà tutti ad elaborare quel lutto e a guardare avanti.
RECENSIONI
Jim Sheridan firma un film intimo e personale: la sua avventura americana e la sua tragedia privata le racconta attraverso le parole e lo sguardo (elettronico) di una bambina (un anacronismo voluto questa videocamera all'inizio degli anni 80?). Se da un lato l'opera soffre di alcune cadute nello stereotipo (il condominio sfigato, la varia umanità che lo abita, una serie di stazioni drammatiche risapute), se certe pieghe dolorose a volte sono spinte all'eccesso e risultano mal calibrate, dall'altro va reso merito al regista di riuscire in più di un caso a raggiungere una discreta tenuta narrativa, grazie alla spigliatezza di alcuni passaggi e alla scelta di un risvolto magico-miracolistico, tenuto doverosamente a bada, che conferisce alla pellicola i toni e il carattere di una tenera favola. Anche il continuo sottotesto metaforico (l'oscillare tra morte e vita, l'elemento spettrale e fantasmatico, la stessa insistenza sul tema dell'extraterrestre - siamo, per l'appunto, nell'epoca di ET - che si applica in pieno a questa umanità aliena che circonda i protagonisti e di cui i protagonisti stessi sono parte integrante) non appesantisce ma, al contrario dona sostanza e vigore all'evoluzione narrativa. Scritto dallo stesso Sheridan e dalle sue due figlie, il film se si dibatte a tratti nelle pastoie di un melodramma compiaciuto (i tormenti legati alla nascita difficoltosa di un nuovo figlio e alla malattia del pittore Mateo), riesce, di contro, a riprendere quota quasi sempre, sostenuto dalla solida regia e dalle buone performance attoriali; nonostante certe metafore siano un po' sottolineate (il padre-attore che deve recitare in casa, a beneficio delle figlie, la parte del genitore felice), il resto del film ha dalla sua una delicatezza priva di facili furbizie che rende IN AMERICA prodotto più che dignitoso, lontano mille miglia dai consueti polpettoni che ingredienti del genere portano nel piatto dello spettatore più sprovveduto.

Samantha Morton, bruttissima ma bella, si adagia delicatamente sul corpo di Paddy Considine, dopo averlo liberato dalle bende che gli impedivano di vedere; gradualmente la sua figura va su e giù, su e giù, su e giù. Le membra cominciano a dimenarsi, incorniciate dai fulmini al di sopra del tetto, come una ragnatela elettrica. Squarcio frenetico: il pittore nero Teo distrugge le sue tele, vi infierisce come una cosa morta quando si è attaccati morbosamente alla vita. E ancora Samantha e Paddy: si amano, nonostante tutto, si vogliono desiderano posseggono, alla faccia del danaro e della vita, delle lacrime e delle difficoltà, della morte ed altre sciocchezze. Appaiono enormi in quel letto dal sentimento disperato, eppure sono due piccole cose, sovrastati dall’impetuoso montaggio epilettico di Naomi Geraghty. Polverizzando i confini dello schermo, questa scena di sesso (e di molto altro) vale da sola tutto il film di Jim Sheridan: la Morton scocca un bacio in bocca allo spettatore, disperatamente innamorata (o viceversa), da cui liberarsi è francamente difficile. Detto questo, si può parlare di manierata retorica e consueta elaborazione luttuosa, si può infangare l’archetipico indugio sui poveri emigranti, è possibile rintracciare la lunga ombra dello stereotipo: ma IN AMERICA possiede una delicata impetuosità, una dolce cattiveria, una morbida rudezza che esorcizza ogni glaciale indifferenza della platea. Finalmente: una storia semplice semplice, che possiede l’accortezza di parlare della morte accarezzandola appena, sbirciandone i contorni sbiaditi mentre si allontana (il bimbo è scomparso prima dell’inizio del racconto). Per antitesi, si approda disinvoltamente al suo contrario: la vita, esaltata in ogni sua forma più semplice (un film visto al cinema, il gusto di un gelato), che significa poi tirare una palla in buca, per far contenta la propria bambina. Il Luna Park triste e scintillante di Sheridan incornicia il chiaroscuro di un forte contrasto: il narrato si ripiega in ralenti, mentre un banalissimo sollazzo può decidere i destini economici di una figlia (le luci di fuori, l’ombra nell’animo; i sorrisi sulle labbra, la paura nel cuore). Ma i soldi, come detto, non sono nulla: conta solo la detonazione del sentimento, strisciante sotto la pelle, che gironzola forse in bicicletta contro uno sfondo lunare. Le “strane” coincidenze della vicenda (guardacaso: un dirimpettaio in punto di morte), l’insistenza un po’ ricattatoria sulla voice off infantile (in italiano: praticamente straziante), lo scontato finale ospedaliero possono essere tutto sommato archiviati. L’imperfezione e il lieve sbilanciamento sentimentale di Sheridan si traducono addirittura in funzionali elementi di contorno: grazie a loro i dorati riflessi dell’opera, quelli veri, restano scolpiti in rilievo nei palazzi della memoria. Matrioska disseminante melanconia, IN AMERICA coltiva suggestioni una dietro (dentro) l’altra, rigorosamente senza strafare; mai scavalca le righe che le competono, si rende capace di iniettare quell’overdose di cinefilia che ogni spettatore si attende. Talvolta occorre lasciarsi andare, annichilire la metà oscura razionale e l’esasperato tecnicismo, per sorprendersi con gli occhi che brillano sui titoli di coda: a quel punto il film in sé non interessa più, ce lo siamo già scordato eppure rimarrà in noi per molto tempo, proprio come succedeva da bambini.

Una famiglia irlandese decide di voltare pagina e sfoglia il libro delle opportunita' di una scintillante New York, fin dalle sue origini (ce lo ha ricordato Scorsese con le sue "Gangs") calderone multietnico di speranze il piu' delle volte disilluse. Gia' immaginiamo il percorso tutto hollywoodiano della formichina che si mangia la cicala e con il sudore e i sacrifici corona i suoi sogni di gloria. Invece Jim Sheridan, che Hollywood l'ha sempre guardata, ma da lontano, sceglie la strada della semplicita'. Il suo film e' una somma di gesti quotidiani, di gioie e dolori che la sceneggiatura riesce a rendere universali, nonostante i palesi riferimenti autobiografici (il film e' dedicato al defunto Frankie, figlio del regista) e un utilizzo, per forza di cose, terapeutico della macchina da presa. Non tutto scorre in perfetto equilibrio, il trauma da rimuovere e' ancora un must inevitabile e alcuni caratteri rischiano di cadere nello stereotipo (su tutti, il nero, prima cattivo incompreso e poi buono terminale), ma la messa in scena ha il sapore della vita. Attraverso sguardi, notazioni d'ambiente, dettagli, trasmette con grande forza l'odore di un appartamento sfitto da tempo, il sapore di un gelato o di una specialita' irlandese a base di patate, l'energia di un colore squarciato su una tela. La regia e lo script non si preoccupano di ritmare a perdifiato la narrazione, accavallando avvenimenti e colpi di scena, ma scelgono alcuni momenti e li seguono con pudore, rispettandone l'armonico sviluppo. Bella l'idea di affrontare la canicola newyorchese andando al cinema con tutta la famiglia: un refrigerio per il fisico in grado di ossigenare anche i sogni (E.T. non abbandonerà più l'immaginario delle piccole protagoniste). Due le sequenze che piu' colpiscono: il ritrovato desiderio di un padre e una madre incapaci di superare il dolore per la perdita del figlio, che una pioggia improvvisa fonde con la vitale pulsione di rabbia di chi sa' che ormai il suo destino e' segnato; la sfida a colpi di dollari e (ri)lanci nel vuoto al Luna Park per conquistare un bambolotto di E.T. e la stima della famiglia, che la regia riesce a rendere mitica e appassionante. Toccante, ma un po' troppo geometrico, il passaggiodi testimone che suggella la morte con una nuova nascita nella parte conclusiva. Nel cast spiccano le due sorelle Emma e Sarah Bolger, davvero strepitose nella loro spontaneita'. La coppia Paddy Considine e Samantha Morton non sprigiona sempre un'alchimia in cui e' possibile perdersi e sembra piu' unita dal cinema che dalla vita, ma le interpretazioni sono convincenti (forse la Morton sta esagerando con il piglio di enigmatico gelo con cui affronta ogni personaggio, vedere al riguardo "Eden" o "Code 46"). Djimon Hounsou (gia' protagonista di "Amistad") gode invece di una fortissima presenza scenica. Con un soggetto cosi' c'era il rischio di impantanarsi nella retorica o nella melassa, invece Sheridan evita le lacrime facili (basta pensare che il lutto che attraversa il film avviene fuori scena) e ci rende testimoni di preziose tracce di vita.
