Drammatico, Recensione

IL VERDETTO

Titolo OriginaleThe Children Act
NazioneGran Bretagna
Anno Produzione2017
Durata105'
Sceneggiatura
Tratto dal romanzo La ballata di Adam Henry di Ian McEwan
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Fiona Maye è un’importante giudice di Londra che gestisce sapientemente numerosi casi di diritto familiare. Il suo lavoro è tutto e il rapporto con il marito Jack è ormai agli sgoccioli. Mentre affronta le difficoltà del suo privato, Fiona si ritrova a dover seguire il caso di Adam, un brillante ragazzo che rifiuta di sottoporsi alla trasfusione di sangue che potrebbe salvargli la vita. A tre mesi dal suo diciottesimo compleanno, Adam è per la legge ancora un bambino. Fiona gli fa visita in ospedale ma non sa che quel incontro sarà decisivo per entrambi.

RECENSIONI

Il cinema ha spesso guardato all’universo letterario di Ian McEwan con occhi spalancati, adattando per il grande schermo molti dei sui romanzi. Solo per citarne alcuni: Cortesie per gli ospiti (1990), Il giardino di cemento (1993), L’amore fatale (2004), Espiazione (2007) e da ultimo Chesil Beach (2017). L’attrazione verso il mondo di McEwan è forse dovuta al senso incombente di calamità morale che pervade le sue storie e i suoi personaggi, chiamati a compiere scelte drastiche, frutto di laceranti processi interiori, che generano conseguenze in grado di riscrivere radicalmente le geografie esistenziali. Non melodrammi, ma tragedie intime, affilate di una severità tagliente, trattenute da una scrittura che si concentra sul gesto minimo, sulla parola non detta, sull’aria che cambia al lieve mutare di un’espressione sul viso. La trasposizione cinematografica non è dunque compito semplice ed è McEwan stesso che firma la sceneggiatura basata sul suo romanzo La ballata di Adam Henry, che diventa Il verdetto. Si tratta di un film solido, interpretato con sapienza, diretto con mestiere, con una “bella storia” da raccontare. Ma rispetto alla ferocia sottile, alla complessità del suo tessuto letterario, il romanziere sembra cadere nella trappola di se stesso, limitando l’arco narrativo ad un’esposizione di fatti e azioni-reazioni, un percorso semplificato alla superficie delle questioni etiche e sentimentali in gioco, che dà per scontata la loro profondità e il loro riverbero, e poco o nulla fa per scavare nei territori, spesso torbidi e disturbanti, che suggerisce. Non aiuta la regia di Richard Eyre, che pur scegliendo una prospettiva di quasi-distanza e trasparenza, potenzialmente interessante, finisce poi per eccedere in una correttezza di messa in scena che si trasforma presto in una certa piattezza, in pura esposizione.

Come nei casi più celebrati del cinema di Eyre – Iris (2001), Diario di uno scandalo (2006) – Il verdetto è innanzitutto un film di attori. Emma Thompson, nel ruolo del giudice Fiona Maye, è il centro focale dell’azione: è un giudice specializzato in casi di minori in situazioni limite, chiamata a soppesare Legge e Etica per decidere di questioni di vita o di morte. Decide di far separare due gemelli siamesi, sapendo di provocare la morte di uno dei due, ma anche di garantire una possibilità di vita all’altro. E decide di imporre la trasfusione di sangue ad Adam Henry, minorenne testimone di Geova che per motivi religiosi la rifiuta. Ma Fiona è anche una donna, una donna in crisi con la vita, una moglie mai stata madre, congelata in una relazione che vacilla, con un marito insoddisfatto (Stanley Tucci) che le chiede disperatamente un cambiamento. È un personaggio annodato in un gomitolo di crisi pubbliche e private, che continuano ad intersecarsi e a scontrarsi, diventando presto l’uno lo specchio dell’altra. È un ruolo potenzialmente ricchissimo che la Thompson affronta con navigato professionismo, ma che paradossalmente soffre di una mancanza fatale di approfondimento psicologico. Se questo, da un lato, potrebbe avere il merito di esaltare l’ambiguità del personaggio, intrigante nella sua insondabilità, dall’altro la relega in uno spazio anonimo di incomprensione emotiva. Al pari della logica delle sue sentenze, recepiamo solo razionalmente l’essenza dei suoi dilemmi (personali e professionali), ma non ne veniamo mai toccati. L’apice di questo cortocircuito si evidenzia nel rapporto di Fiona con il giovane Adam Henry (interpretato, con rara antipatia, dal lanciatissimo Fionn Whitehead). Da estremista religioso la cui vita viene salvata dalla ragionevolezza etica della Legge a stalker invasato di vita e promesse future, Adam scavalca i confini della sfera pubblica e diventa una disturbante incarnazione dei fantasmi privati della giudice. Adam non è solo il figlio che non ha mai avuto, spettro che si aggira strisciante nella relazione fra lei e il marito; Adam prende soprattutto la forma inaspettata dell’amante potenziale, della componente erotica persa nella relazione con il marito, dell’avventura amorosa che lui si è già concesso e lei ancora no. L’abisso di questa configurazione simbolica è oscuro e senza fondo, inaccettabile dalla morale comune, distruttivo rispetto alle coordinate sentimentali e sociali imposte. Il film lo suggerisce apertamente, ne mette in scena i sommi capi (fra cui un bacio rubato, inquietante), ma decide scientemente di non sporcarsi le mani con i dettagli, con i tormenti interiori, e fugge verso un finale elegante e irrigidito. Il verdetto decide, purtroppo, di rimanere dalla parte salva delle lacerazioni di cui pur parla