Biografico, Drammatico, Recensione

IL TRADITORE

TRAMA

Tommaso Buscetta, la cui famiglia fu interamente sterminata dai Corleonesi, suoi rivali mafiosi, ha permesso ai giudici Falcone e Borsellino, prima di cadere tragicamente per mano della mafia, di portare alla luce l’esistenza della struttura mafiosa di Cosa Nostra, rivelandone i capi, facendoli imprigionare, svelando le collusioni con la politica, e l’esistenza, con Pizza Connection, del traffico di droga con la mafia italo-americana.

RECENSIONI

Lo scontro è quello tra la nuova mafia corleonese, che non conosce limiti alla barbarie, e la vecchia, quella degli uomini di onore a cui Buscetta dice ancora di appartenere. Buscetta non si considera un traditore - anche se è così che viene definito e percepito nel mondo malavitoso di cui è parte integrante - ma un tradito. Tradito da Cosa Nostra che ha abbandonato quel sistema di valori al quale lui aveva consacrato il suo giuramento. La rivendicazione del protagonista diventa lo specchio di un’etica che plasma la sua figura e determina l’empatia scomoda dello spettatore nei suoi confronti.
La scena iniziale, quella della festa in casa Bontade, nella quale si cerca la pace tra le due fazioni (invano, come vedremo), è fondativa della rappresentazione perché da un lato disegna la figura di Buscetta (non eroe, non antieroe: un uomo che ha fatto e farà delle scelte), e dall’altro una geografia di rapporti che ripercorreremo nel corso del film, un teatro di personaggi di cui viene indicato in sovrimpressione nome e cognome, abbinandoli al volto, come nella distribuzione dei ruoli di una pièce. La suggestione del testo tragico (euripideo, azzardo, proprio per il carattere antropocentrico: non c’entra il Fato, non c’entrano gli Dei, qui l’uomo costruisce la sua sorte), del dramma trattato come tale, ritorna con la sovraimpressione del numero di vittime, scorrere di numeri che si identifica nello scorrere del sangue della guerra tra le bande: la lotta è feroce, si è innescata una perpetua spirale di dolore che semina vendetta. E altro dolore, e altra vendetta. Un’escalation di morte e atrocità che porta Buscetta a collaborare con la giustizia, anche se l’elaborazione che questa scelta cruciale comporta rimane in ombra, sottintesa. Si mostra la decisione come già maturata: è il vero grande mistero che avvolge la figura, un buco nero che non si riempie, un'ellisse che dipinge il personaggio di un’ambiguità che, lasciata sottotraccia nel corso del film, riemerge prepotente nell’ultima parte. Ovvero nelle titubanze del processo Andreotti. E nella conclusione di quel racconto fatto al giudice Falcone, che Bellocchio lascia in sospeso per l'intero film, per chiuderlo solo prima dei titoli di coda: la missione omicida che Buscetta porta a termine dopo anni, non appena la vittima predestinata, sempre protetta dalla presenza del figlio, rimane sguarnita, ormai rassegnata all’esecuzione. Un finale che sembra ricordare allo spettatore che, al di là di tutto quello che si è visto, pensato, sentito, di un assassino si è sempre narrato.
Perché in Il traditore, Buscetta mi pare soprattutto rimeditato nel suo ruolo di trait d’union imperscrutabile ed equivoco con un mondo di cui illustra la meccanica e dei cui misteri si elegge depositario: Cosa Nostra ci si rivela perché è lui ad annunciarla. Buscetta ne scrive il Nuovo Testamento: un testo che è tutto nelle sue mani, alle quali si affida anche ogni possibilità residua di immaginarla. Lo capiamo quando l’uomo rivoluziona la rappresentazione della malavita siciliana, per come lo si conosceva, avvertendo Falcone che essa era frutto di una fittizia costruzione mediatica («La mafia non esiste, la mafia è un’invenzione giornalistica. Cosa Nostra si chiama»). Il film, attraverso il suo racconto, illustra questa dimensione alternativa, che promana da lui e sulla cui ricostruzione facciamo un atto di fiducia, fiducia che viene rinegoziata alla fine, quando, ripensandoci, anche quel tingersi i capelli può essere letto come un segno di vanità allarmante.

Poi, certo, Il traditore, come tanto cinema di Bellocchio, tratta di una questione precisa, solo per allargare il campo e dire tutto ciò che questa significa in termini di immaginario. Quindi non è un film di mafia, se non nella misura in cui di mafia si parla, perché quello che interessa al regista è il sondare la coscienza di un Paese abituato a tradire, attraverso le maschere di questo teatro di figure, grottesche per vocazione e orrorifiche senza alcuna forzatura (attori tutti magnifici, Lo Cascio enorme). Un teatro che si manifesta in due modi: il primo è quello della ricostruzione puntuale, come nelle scene del processo, in cui un giudice senza alcuna autorevolezza tenta di tenere a freno le escandescenze degli imputati. Sono scene eccessive solo per chi non sa che le cose si svolsero proprio in quel modo, perché a questo livello Bellocchio non mitizza o idealizza i personaggi, ma evidenzia come la realtà possa farsi rappresentazione da sé, senza drammatizzazioni o riletture.
Il secondo modo in cui opera questo teatro è quello delle interpretazioni di quella realtà: qui Bellocchio si muove a un livello più profondo - semicosciente e vagamente allucinatorio -  nel quale lavora soprattutto la sua osservazione dei personaggi, e la traslazione dei risultati della sua indagine psicologica in immagini simboliche - come quelle degli animali (la iena Riina, i topi-picciotti che scappano quando c’è il blitz, Pippo Calò come una tigre in gabbia) - o in visioni angoscianti (ancora Calò bombardato dalle parole della vedova Schifani, come un mantra ossessivo e purgatoriale). Il Bellocchio che conosciamo, insomma: quello che da un lato espone una vicenda emblematica della nostra Storia a tinte forti e brutali e, dall’altro, ne fa uno psicodramma della nazione, significativamente sintomatico (come Buongiorno, notte o La bella addormentata, di recente), un intrico di piste, alcune marcate, altre meno nitide (l’onirismo), altre ancora suggerite in trasparenza. Un affresco mobile (fino allo scomposto, va detto) e «inattendibile» (come si dice della testimonianza di Buscetta in ultima istanza - e il titolo del film, in questo senso, può assumere tinte inquietanti - ), temporalmente frammentato, in cui formicolano molteplici figure e il cui centro a volte si mette a fuoco, a volte si lascia solo intuire.