TRAMA
Adriano Doria è “l’imprenditore dell’anno” nella nuova Milano da bere. Guida una BMW, porta al polso un Rolex vistoso, ha una moglie e una figlia adorabili e un’amante bella come Miss Italia. Ma ora si trova agli arresti domiciliari, accusato di aver ucciso l’amante Laura, nonostante si dichiari del tutto innocente. Per salvarsi dalla galera la sua unica speranza è Virginia Ferrara, avvocatessa penalista di gran fama. Virginia però vuole che Adriano le racconti per filo e per segno tutta la verità e nient’altro che la verità, in quello che pare, a tutti gli effetti, un interrogatorio. Ma stabilire la verità non sarà facile, e ci vorrà tutta l’abilità dell’avvocatessa per trovare il bandolo della matassa.
RECENSIONI
L'impressione, spesso, è che l'industria cinematografica italiana non ambisca più ad uscire dai propri comodi e collaudati recinti produttivi. Un leitmotiv inossidabile: pochi rischi e molto comfort, poco coraggio e molto appiattimento. Ci sono le eccezioni, naturalmente, anche se di norma, quando ci si trova di fronte a lavori che mettono in scena immaginari lontani anni luce dal nostro intimismo autoreferenziale, si ha la sensazione dell'ostentazione per dimostrare di poter reggere il confronto, di saper gestire plot e narrazioni dal gusto internazionale. Sovente, poi, questi nostri tentativi di superare e annullare i confini sono desunti da modelli già esistenti (o sono, più apertamente, remake). Non esula da questo discorso Il testimone invisibile di Stefano Mordini, che riprende e ricalca lo spagnolo Contrattempo (2016) di Orion Paulo, opera presente nel catalogo Netflix con la quale è arduo non abbozzare un paragone. Il testimone invisibile è una pellicola altamente professionale, che esprime al meglio alcune non scontate eccellenze: la fotografia plumbea e mortifera di Luigi Martinucci, ad esempio; il montaggio tensivo e paziente di Massimo Fiocchi; la scenografia efficace – in quanto possibile, verosimile, quasi cronachistica – di Paolo Bonfini.
Il film di Mordini funziona, eccome, conosce i meccanismi del whodunit hitchcockiano e tiene viva l'attenzione spettatoriale per tutta la sua durata senza grossolani cali di ritmo. Un risultato ammirevole che, tra le altre cose, è stato premiato dal pubblico in sala, prima che l'orda barbarica dei film di Natale spazzasse via tutto. Ma pur sempre un risultato derivativo, che non può non far ragionare sulle differenze esistenti fra opera d'arte e copia conforme. Lo capiremmo anche da soli ma, nel dubbio, nel film ci viene ripetuto fino al parossismo: “La plausibilità si basa sui dettagli”. Se le regole del gioco sono queste, accettiamo il consiglio, a partire dal titolo: mentre l'originale iberico punta sull'imprevisto che travolge il destino dei due protagonisti, peccato primigenio da cui si srotola tutto il resto del dramma, il rifacimento italiano guarda ad uno dei colpi di scena che potrebbe rimescolare le carte in tavola, nel momento in cui l'imprenditore Adriano Doria tenta il tutto per tutto convocando la nota penalista Virginia Ferrara, che non ha mai subito sconfitte in tribunale. È lei a catalizzare tutti i risvolti della vicenda, costringendo il personaggio principale ad una ricostruzione minuziosa (seppur recalcitrante) e ad un duello verbale fitto di doppi fondi, false piste, elementi insignificanti che diventano essenziali e viceversa.
L'impianto teatrale della messinscena, da questo punto di vista, premia l'attrice Maria Paiato molto più di quanto non faccia con la sua gemella spagnola Ana Wagener: il fatto che sia meno conosciuta – cinematograficamente parlando – di Scamarcio, Leone e Bentivoglio la rende in qualche modo (pur essendo per distacco la migliore degli interpreti) meno visibile ai radar del pubblico, portato a focalizzare la propria attenzione su particolari inutili o trascurabili, ignorando l'evidenza che è davanti ai suoi occhi. Un'operazione di cesello che, per differenziarsi in qualche modo dal prototipo ispanico, lavora con precisione – appunto – sui particolari, sviluppando sì intelligentemente l'aspetto umano della sfida impari fra due opposte disperazioni ma entrando al contempo a gamba tesa sulla sceneggiatura, che troppo frequentemente si fa didascalica e ridondante. La potenza del twist finale resta intatta, ma la necessità – apparentemente tutta italiana – di dover spiegare ogni singolo aspetto fino a sfondare la didattica, lasciando praticamente nulla all'immaginazione e all'interpretazione, ci lascia nuovamente interdetti e indecisi. Non se ne esce: per quanto Il testimone invisibile sia un film innegabilmente bilanciato e solido, non riesce a risolvere e superare la sua natura dichiaratamente emulativa.