TRAMA
Lucas è un maestro d’asilo in un piccolo paese della Danimarca. Quando la bambina del suo miglior amico racconta una bugia, Lucas diventa la vittima di una caccia alle streghe.
RECENSIONI
Nella pratica di sistematica semplificazione cocciutamente coltivata dai titolisti italiani, perfino un titolo come The Hunt (in danese Jagten) perde qualcosa nel passaggio al pur non depistante Il sospetto. Nell'opera di Vinterberg la caccia non è soltanto quella che si scatena ai danni del protagonista, insegnante d'asilo accusato dell'infamante e incancellabile reato di molestie su una bimba, ma è anche e soprattutto l'arte venatoria vera e propria. Sport solido e virile per eccellenza, fondato sull'accettabile sopruso nei confronti di specie animali che fungono da preda, la caccia è l'attività preferita del gruppo di amici di Lucas (Mads Mikkelsen), robustamente goliardici e goderecci: il film si apre sul rituale del bagno in acque gelide, momento d'aggregazione di una comunità che si intuisce, fin dal principio, fatta di intimità e rapporti consolidati. La caccia, che unisce con dolorosa precisione la sequenza iniziale a quella conclusiva, è il simbolo della virile cerchia amicale da cui Lucas si trova espulso con disonore quando la piccola Klara, confusa da un infantile sentimento amoroso precocemente tradito, si fa strappare dagli adulti una confessione che non ha via di ritorno. Lontano dalla semplice drammatizzazione di un fatto di cronaca, il film di Vinterberg è una riflessione sui meccanismi di appartenenza ed esclusione da una comunità (sia essa quella degli amici d'infanzia, quella di un paese o quella più vasta dei cittadini cosiddetti rispettabili): in questo senso risulta non rilevante e quasi accidentale il fatto che la bimba sia la figlia di uno dei compagni di confraternita, anzi, del migliore amico di Lucas, Theo (Thomas Bo Larsen), dal momento che è tutta la comunità a decretare la sua fuoriuscita dalla cerchia degli accettati. La regia di Vinterberg si muove con abilità per dare forma tangibile al metaforico conflitto tra dentro e fuori: glaciale solo in apparenza e mai sovrastata dalla magistrale interpretazione di Mads Mikkelsen (sacrosanta Palma al miglior attore a Cannes 2012), rende incandescenti i confini tra interno ed esterno. Si veda, in questo senso, la tensione che permea le sequenze in cui Lucas varca il confine riappropriandosi del Dentro: il supermercato, con la reiterazione ostinata del movimento di entrata, e la chiesa, ambiente comunitario per eccellenza.
I dialoghi tra Lucas e Klara, il carnefice immaginario e la vittima presunta, si svolgono sul punto cruciale e fatidico della soglia di una porta. In equilibrio tra la chirurgica descrizione di meccanismi primordiali e l'empatia con la vera vittima, Lucas medesimo, Vinterberg intrappola lo spettatore in un regime di semisoggettiva che non lascia scampo: con lui viviamo l'aura terrificante che improvvisamente riempie luoghi di banale quotidianità come il supermercato o la navata di una chiesa di paese, eppure l'empatia non è mai completa. Lucas non trova la nostra comprensione e immedesimazione totale, così come non la trova in chi lo circonda: né la cerca, mai. Qui entra in gioco il lavoro di cesello dell'impressionante sceneggiatura firmata dal regista a quattro mani con Tobias Lindholm (già suo collaboratore per il precedente Submarino), che congela ogni possibilità melodrammatica privando il protagonista della volontà di dire il suo dolore. Se Vinterberg mette in atto questa presa di posizione orchestrando il gioco dei silenzi e degli sguardi, già nella scrittura il personaggio e il suo stato d'animo sono definiti per sottrazione: Lucas non dice mai la sua innocenza, non la pronuncia e non la rivendica, né tantomeno la urla o la scrive. Se il figlio è l'unico, per il dovere del sangue, a dargli fiducia assoluta e quindi a non chiedere spiegazioni, perfino all'amico e all'amante Lucas non dice mai la frase Non sono stato io. La sua difesa è la sua presenza, il suo ingresso fisico in quei luoghi da cui è implicitamente bandito, la riconquista di un dentro da cui è stato tagliato fuori. Il non detto, da entrambe le parti in causa (il non-difendersi di Lucas, il non-perdonare di Theo e il non-ritrattare di Klara), si deposita negli anfratti della pellicola, mentre Vinterberg lo sottopone a glaciale fermentazione, lo fa sedimentare come polvere indigesta: al punto che nel fulminante finale (dove il bandito è finalmente riammesso alla caccia), quando il non detto assume minacciose sembianze corporee, deflagrando sullo schermo, è come se l'avessimo avuto sotto gli occhi tutto il tempo.
Ulteriore analisi feroce di una comunità da parte del regista di Festen. L’Italia traduce il titolo (caccia al cervo) per assonanza con Il Dubbio, stesso tema ma ben altra impostazione: qui non ci sono sospetti ma caccia alle streghe, mentre quella al cervo apre e chiude il film segnando un cambiamento di posizione del protagonista, dentro e fuori di sé (il misterioso cacciatore che gli spara nel finale: la paura non finirà mai), saldamente integrato nella comunità prima e reietto poi. Vinterberg carica al parossismo nella paranoia il sospetto iniziale, additando, da un lato, la fobia che l’uomo ha per i mostri di moda, vedendo certezze dove ci sono solo indizi o voci di corridoio, dall’altro la labilità dei legami sociali, la loro precarietà fatta di forma: il “rientro” di Lucas fra abbracci e sorrisi, come se nulla fosse accaduto, è quasi più agghiacciante della Furia (Fritz Lang) della folla. Purtroppo, per portare avanti queste riflessioni, il regista non esita di fronte ad artifici e manipolazioni anche semplicistiche: è sempre off la parte istituzionale, quella composta da poliziotti, avvocati, stampa, psicologi (dell’accusato, non della bambina: quello che la segue è artificioso anch’egli nell’assenza di professionalità), e l’intento di Vinterberg non è tanto quello di rimarcare che al protagonista pesa solo il trauma della cacciata dalla comunità (il resto, quindi, non si vedrebbe perché a lui non interessa), bensì di trovare una scorciatoia per trasmettere allo spettatore l’incubo dell’isolamento, dell’ingiustizia, delle accuse infondate che prendono il corpo delle certezze (quando un confronto con casi simili attraverso, ad esempio, un avvocato, avrebbe ridimensionato il suo turbamento, ma mal servito lo scopo manipolatorio della regia). L’altro grosso difetto dell’opera è il suo essere oltremodo scontata: l’idea su cui si fonda, l’ingiusta accusa di pedofilia da parte di un bambino nei confronti di un maestro, fa parte della cronaca di tutti i giorni ma il problema sta proprio nello studio poco approfondito nel momento in cui, all’analisi del “senso di appartenenza” che muore dentro, si preferisce giocare “commercialmente” sul cul de sac. Sono efficaci, tuttavia, molti passaggi, verso il finale, in cui il protagonista non s’arrende, sfida chi lo accusa, s’erge eretto fino alla fine riacquistando la fiducia di un amico.