TRAMA
Nel 1952 un funzionario del Ministero di Grazia e Giustizia viene inviato nella campagna veneta per fare luce su un caso anomalo: un bambino ha ucciso un coetaneo perché credeva fosse il diavolo.
RECENSIONI
Pupi Avati indaga da sempre il lato oscuro, a volte venandolo di sottile malinconia nei ricordi del tempo che fu (pensiamo a Una gita scolastica in cui dietro alla celebrazione dei riti del passato si nasconde l’orrore dell’essere destinati all’oblio), altre affrontandolo di petto attraverso un cinema di genere che quell’angoscia la declina in brividi (il celeberrimo La casa dalle finestre che ridono, ma anche Zeder, L’arcano Incantatore e il più recente Il nascondiglio). Con Il Signor Diavolo il maestro bolognese torna al gotico padano, quindi al film di “genere”, ormai una rarità nel panorama nazionale. Siamo nella campagna veneta dei primi anni ’50, un mondo rurale dove la superstizione guida scelte di vita e il quotidiano, dietro la superficie di una routine semplice, all'insegna di lavoro e famiglia, nasconde ombre che possono diventare abissi. Avati è molto abile nel mettere in scena una realtà nelle sue corde e che conosce bene, a disseminarla di indizi che inquietano, ad ammantare la calma apparente di mistero. Il suo è infatti un cinema molto personale e riconoscibile, fatto di luoghi e facce che raccontano di un mondo sospeso in cui credo e credenze si sovrappongono e dove leggi arcaiche e riti primordiali dominano sul razionale e sul concreto. Le pedine di questo gioco cupo e pessimista sono i volti che hanno attraversato il suo cinema, facce che subito ci riportano ad atmosfere già vissute in altri film: Gianni Cavina, Alessandro Haber, Lino Capolicchio, Andrea Roncato, Massimo Bonetti, Chiara Sani, Fabio Ferrari.
Il racconto parte da un cliché sempre efficace, quello del nuovo arrivato, come spesso accade, quando ci si accinge al soprannaturale, un miscredente dall'approccio razionale che deve inserirsi in un microcosmo, impararne le regole, acquisirne i codici, sporcarsi gradualmente le mani per poi giungere a una verità inaspettata. La sceneggiatura è un po’ verbosa, con molti passaggi da un personaggio all'altro dalla chiara funzione esplicativa che rischiano di appesantire la fruizione, ma viene riscattata da una messa in scena essenziale e accurata che arriva dritta all'obiettivo: insinuare il dubbio, perturbare e predisporre all'inatteso. Per farlo può essere sufficiente mostrare la penombra di una sacrestia, una villa decadente, l’immobilità della campagna. Curioso come i trucchi casarecci di Sergio Stivaletti, sonorità datate e un andamento personale e fuori dalle mode riescano a produrre un retrogusto più sulfureo di tanti horror contemporanei che puntano più sull'effetto che sulle atmosfere e la costruzione del racconto. Il film è tratto dal romanzo omonimo dello stesso Avati che è stato dall'autore consapevolmente tradito, insieme al fratello Antonio e al figlio Tommaso, in modo da renderlo più adatto ai tempi cinematografici.