
TRAMA
XIV secolo: Antonius Block torna dalle crociate con il suo scudiero, salvo scoprire che le sue terre sono devastate dalla miseria e dalla peste. Un’inquietante figura, la Morte, reclama la sua anima ma Block riesce a prendere tempo.
RECENSIONI
Opera seminale per la Settima Arte e nel percorso artistico di Ingmar Bergman (ma l’autore lo considerava ingenuo) che, fra l’altro, inaugura il tema del silenzio di Dio e la collaborazione con Max Von Sydow; è anche la prima volta al cinema per Bibi Andersson, sua compagna, e il primo ruolo drammatico per il comico Nils Poppe. Un film con diverse fonti d’ispirazione che, amalgamate, formano un ibrido meraviglioso: un incubo dell’autore, un atto unico scritto nel 1954 per gli allievi dell’Accademia Drammatica di Malmo (“Trämålning”, ‘Pittura su legno’), le chine medievali raffiguranti streghe, saltimbanchi, flagellanti e crociati, i dipinti di Dürer, i Carmina Burana di Carl Orff (nel commento sonoro di Erik Nordgren), Cervantes, Strindberg, Shakespeare, la fobia atomica, Il Carretto Fantasma di Victor Sjöström, Dies Irae di Dreyer e i versi dell’Apocalisse sul Settimo Sigillo che, aperto, svelerà il mistero della vita. Un capolavoro sia nell’uso pittorico del bianco e nero contrastato della fotografia allucinatoria di Gunnar Fischer, sia nella riflessione sulla vita e la morte, simboleggiata dalla famosa “partita a scacchi” ispirata dall’affresco di Albertus Pictor: è in questo film che Bergman, oltre ad anticipare il motivo dello specchio, per la prima volta analizza, evoca e trasmette l’angoscia dell’individuo di fronte al vuoto di senso degli eventi e del suo interiore, soprattutto in rapporto con il mondo circostante, che sia legato agli orrori della Vita o all’indifferenza del soprannaturale. Antonius è in balia, anche, delle considerazioni nichiliste ma figlie della ragione dello scudiero di Gunnar Björnstrand e degli inviti all’oblio da parte della Morte monacale interpretata da Bengt Ekerot (che era regista dell’atto unico da cui tutto ha preso le mosse): il primo è atterrito dall’avvenire e la seconda rivela comportamenti che non si addicono ad un essere superiore. Nell’apparente semplicità (dettata anche dal basso costo) di una fiaba allegorica dell’orrore, la magica inquietudine che il film trasmette è figlia sia dell’enigmaticità con cui descrive i tentativi di mettere sotto scacco le ineluttabilità esistenziali, sia della coesistenza di umorismo e terrore negli incontri con la Morte: infine, che a trionfare sia la fede in un atto di bene (salvare la famiglia di attori ambulanti) o lo sgomento che, in maggior misura, l’opera ha diffuso, a Bergman interessa aver aperto il Settimo Sigillo, donando all’Umanità e al Cinema le domande che contano e il dogma dell’assenza di certezze. L’ossimorica, meravigliosa “danza della morte”, infatti, chiude il cerchio sull’agonia della credenza.
