Drammatico, Recensione, Sala

IL SEME DEL FICO SACRO

Titolo OriginaleDane-ye anjir-e ma'abed
NazioneIran, Francia, Germania
Anno Produzione2024
Durata168'
Sceneggiatura
Montaggio

TRAMA

Iman è stato promosso giudice istruttore presso il tribunale rivoluzionario di Teheran quando un movimento di protesta popolare inizia a scuotere il Paese. Le figlie sostengono il movimento, mentre la moglie cerca di accontentare entrambe le parti.

RECENSIONI

Come accade per molti altri titoli che interrogano direttamente il presente di censura e repressione che vige in Iran, non si può parlare del contenuto de Il seme del fico sacro, senza parlare della sua storia produttiva e distributiva, della “vita” del film. Come Jafar Panahi, Saeed Roustaee, Bahman Ghobadi e tanti altri registi iraniani, Mohammad Rasoulof è un artista perseguitato dal regime teocratico per le sue idee. Arrestato nel 2010 e nel 2022 e nuovamente condannato nel 2024, oggi è rifugiato in Germania. A gennaio, è stato impedito all’attrice Soheila Golestani di partecipare come membro della giuria al Festival Internazionale del Cinema di Rotterdam, a causa del suo coinvolgimento nel film, girato in condizioni di clandestinità, come si coglie dalla severità dei toni luminosi e dall’asfissia di gran parte delle ambientazioni. Un'urgenza politica e produttiva che spesso mette le qualità espressive delle opere di denuncia come questa in secondo piano, condannandole a meri film-messaggio “necessari”. Ma l’importanza storico-politica de Il seme del fico sacro non lede o sovrasta la sua ricercatezza formale, il lavoro che Rasoulof fa sull’immagine e con le immagini. Pur nella ristrettezza dei mezzi, l’immediatezza del tema, non si traduce nell’immediatezza del visivo, ma nella sua essenzialità, nella resa espressivamente ecologica e tersa dell'immagine cinematografica, nel continuo dialogare con l'eccesso spaesate e diversificato delle immagini mediatiche e d'archivio degli scontri a cui si fa riferimento. Il contemporaneo irrompe tra le mura abitative attraverso contenuti tv e video caricati su Instagram e altri social. la verità del presente iraniano viene edulcorata dai massmedia tradizionali, svelata e denunciata dai nuovi "self-media": in ogni caso, è ancora una volta una questione di immagini. Da una parte le immagini istituzionali, pubbliche, dall'altra le prospettive individuali e testimoniali dei singoli. Il film pone l'accento sul punto di vista individuale, personale e identitario nella storia, su una messa in questione del posizionamento morale dell'essere umano all'interno del dramma politico collettivo. Come accade anche in tanto cinema di Asghar Farhadi, la scelta etica dell'individuo, porta il dramma relazionale a farsi thriller, un rompicapo da risolvere rinvenendo un'immagine mancante, una verità fuori-campo. In Rasolouf, quell'immagine continua a mancare, a sottrarsi, a celarsi dietro uno sguardo bendato. Il whodunnit famigliare, traspone su casa, un conflitto nazionale e politico, senza cogliere mai didascalicamente il climax della violenza, scegliendo di contemplarne gli effetti, il modo in cui contagia il presente. Iman perde la sua pistola, mcguffin simbolico del potere violento, misogino e retrogrado che si trova a servire, e si convince che le figlie gliel’abbiano rubata. Un espediente che sventra la casa dei suoi valori di appartenenza, passibili di perquisizioni e interrogatori: un cortocircuito processuale e poliziesco, in cui la colpa è nella stessa indagine. Se in Farhadi, la verità risolve la storia, in Rasolouf è l'individuo con le sue scelte ad assolvere o condannare il reale. Se Jafar Panahi rinviene quell'immagine mancante nel cinema, nella sua capacità di immergersi nel reale, nelle sue peculiarità documentali, Rasouluf la trova nello sguardo dell'essere umano, nella prospettiva che sceglie di avere sul presente. Rimane incollato al personaggio, lo indaga mentre è chiuso nelle sue stanze e nelle sue nevrosi, ne perlustra gli ondeggiamenti morali e psicologici, insistendo su una vicinanza visiva spaziale e domestica, ma soprattutto umanista, legata all'immagine più vera e immediata di tutte, quella dei volti. Per citare Panahi, tre volti in particolare. Quello sfigurato dell’amica delle giovani Rezvan e Sana, ferita dai militari durante uno scontro; quello imperturbabile di Iman, attanagliato dall’onere di dover scegliere di arresti e condanne a morte durante il culmine delle proteste; infine quello del personaggio più vivido e rotondo del film, interpretato proprio da Golestani. Najmeh medica e cura entrambi gli altri due volti, media tra i doveri del marito e le idee delle figlie, si asserve alla tirannia delle norme patriarcali, repressive e omicide, ma protegge e salvaguarda da quella tirannia le istanze ribelli che lo mettono in questione. Najmeh è garante di uno spazio domestico che è metafora di un paese intero. Vede il marito di notte, si occupa delle figlie di giorno. È emblema di una comunicazione irrimediabilmente interrotta tra generazioni, tra generi, tra morale e istituzione, rimozione e responsabilità, racconto e verità. Un conflitto in cui non si può non prendere posizione. Mohammad Rasoulof continua a interrogare il presente dell’Iran, indagandolo nell’aspro territorio della responsabilità personale, immersa nel dispotismo del potere teocratico. Lo fa, trasponendo il conflitto storico nel contesto privato, affettivo, domestico: uno spazio famigliare trasfigurato dalle istanze di un presente che alla fine vince sull'allegoria domestica, rende estranea la genealogia, svela la ferocia insita nel paterno (genitoriale e istituzionale), intossica il rapporto con l'altro, proprio come Il fico sacro fa con radici e arbusti delle altre piante per essere eterno, simbolo di un potere spirituale millenario che uccide il simile per vegetare. Come nel titolo, l'andamento metaforico è evidente, cristallino durante tutto il film, ma non soffoca mai la naturalezza del narrato, non irretisce mai la credibilità di ciò che si vede sullo schermo, non lo limita mai ad una resa parabolica, iperbolica ed "esemplare" lo sguardo alla relazione umana. È un film che non si compiace mai della sua urgenza, perché non si limita a criticare il potere che lo censura, ma chiama in causa il famigliare, abitudinario, obbediente contesto che l'ha, negli anni, legittimato.