TRAMA
Nell’Inghilterra del 1950 la domestica Vera Drake svolge una seconda attività: aiuta le ragazze del suo quartiere provocando aborti clandestini dalla parte del bene.
RECENSIONI
Il pianto di rigore
Apparentemente irreprensibile l’ultima uscita dell’inglese Mike Leigh: muovendosi sul piano del reale/ismo il suo film punta la lente sulla classica “donna qualunque”, trasformatesi nell’emblema di un’epoca che è un grido di libertà che sono due ore tonde di cinema calibrato e quadrato. Fin troppo: se la prima parte contribuisce alla creazione di un’ammirevole atmosfera everyday (appaiono illuminanti gesti ed impegni quotidiani, lo spazio ripartito negli interni della casa, la vacua parlantina di Vera in famiglia), dal momento dell’arresto la pellicola comincia ad emettere quel vago scricchiolio che, tanto è sommesso, sarà notato da uno spettatore su dieci. Imelda Staunton, fin lì intensa e decisiva, inforca un’unica espressione disperata e la propugna ad oltranza, sequenza processuale inclusa –la più banale e telefonata in assoluto, volta unicamente a martirizzare un personaggio già travagliato. Il fatto è che la consegna di verità inciampa nell’esigenza spettatoriale: difficile non notare la ripetizione grossolana (la donna racconta più volte la sua storia), l’espediente meramente narrativo per lanciare il messaggio (i dialoghi carcerari), la strascicata ricerca della lacrima dove il lungo pianto di Vera è (vuole essere) riflesso dell’inumidito sguardo degli astanti. Il felice contrappasso sono invenzioni di dolente maestria, queste sì davvero impeccabili: piccole gerarchie sociali crescono –per la ricca borghesia è più facile abortire, o tempora o mores- mentre la parentela della colpevole, prima nido di solidale tenerezza, si squarcia violentemente al momento del confronto come in SEGRETI E BUGIE. VERA DRAKE resta innegabilmente lavoro riuscito, ennesimo tassello interessante di una filmografia potentissima ma regala l’impressione di nutrirsi eccessivamente del suo stesso ruolo sociale; dunque un Leone d’Oro 2004 d’estrema nobiltà ma di fatto una prova appena di prammatica. Nonostante la splendida inquadratura che chiude baracca e burattini –grigio convivio famigliare tarato dall’assenza di Vera, poi dissolvenza- la definizione regnante, anche durante l’essenziale ed inutilmente efficace ricostruzione dei ’50, rimane sempre la stessa: possiamo dirlo? Un film minore.

Quanti grazie dobbiamo al regista Mike Leigh? Tanti in questi anni e un altro lo aggiungiamo al conto con questo inattaccabile ritratto di signora e d’epoca, di sobrietà e intensità rare. La metodologia di Leigh la conosciamo: gli attori che provano per settimane, lontani dalla macchina da presa, perché arrivino ad indossare le loro parti con una disinvoltura miracolosa (peccato sul serio per il doppiaggio che, anche nella migliore delle ipotesi, non potrà che stravolgere questo film). Leigh mette sul piatto una questione delicata, la rende in tutta la sua complessità e, senza facili proclami, senza propagandismi, curando in massimo grado drammaturgia e narrazione, riesce a fare un film veramente politico, una pellicola che nel confronto mai schematico fra ambienti e classi (alta e media borghesia, proletariato) fa emergere bene la spinosità della questione (il film, per Susan, la figlia della ricca famiglia in cui lavora Vera, si chiude quasi subito dal momento che, in virtù della sua posizione sociale, riesce a risolvere l’”impiccio” in maniera rapida e sicura). Zero semplicismi, massima attenzione al dettaglio, regia di semplicità commovente, una scena madre di disagio quasi palpabile (la festa di fidanzamento che si chiude con l’arresto di Vera), una squadra di attori magnifici (Imelda Staunton farà strage di premi quest’anno), una sceneggiatura che non fa una grinza: era inevitabile che gli umori della giuria trovassero la loro convergenza in Vera Drake che si porta a casa un meritato Leone.

Lacrime e tè
In tempi sospetti in cui lo spettro reazionario si affaccia con prepotenza rischiando di cancellare diritti conquistati a fatica e dati ormai per acquisiti, il nuovo film di Mike Leigh diventa quanto mai attuale e ricorda come, neanche troppi anni fa, la condizione femminile fosse assurdamente difficile e priva di tutele. Con il suo talento per rendere cinematografiche le facce più comuni, molto più inclini alla verità della vita che allo star system, il regista inglese racconta la storia di una donna che vive una serena situazione famigliare, nonostante i problemi economici, ma che, oltre a fare le pulizie in signorili palazzi borghesi, aiuta giovani ragazze ad abortire. Dopo una prima parte brillante e acuta, capace, grazie anche all'accurata scenografia, di far entrare lo spettatore negli angusti salotti di una famiglia della Londra del 1950, il film si concentra sulla scoperta dell'attività illecita della protagonista e sulle conseguenze penali. L'iter diventa così classico e inevitabile: l'arrivo della polizia, la drammatica confessione, la prigione, il processo, la reazione di familiari e amici, alcuni solidali altri ostili. Pur senza dare giudizi il regista, anche sceneggiatore, forza il consenso del pubblico: Vera Drake è praticamente un angelo, sempre gentile e servizievole, ha un sorriso per tutti, pensa solo ad aiutare gli altri e non chiede nemmeno soldi in cambio. Così come appare molto cinematografico, ma troppo furbo per commuovere davvero, il contrasto tra la gioia della festa casalinga (con l'annuncio di un matrimonio e di una nuova nascita) e la disperazione conseguente all'arrivo della polizia. Sul tema dell'aborto si era già espresso con più rigore e problematicità Claude Chabrol, con il potente e shoccante "Un affare di donne". Resta la superba prova di Imelda Staunton, giustamente premiata con la Coppa Volpi per la sua interpretazione, bravissima nel rendere le due facce della bontà e del dolore, (perché solo quelle ci vengono mostrate) di un personaggio che avrebbe richiesto più sfaccettature per poter essere creduto fino in fondo. Eccessivo il Leone d'Oro attribuito dalla giuria al Festival di Venezia.

Tell us your little (Secrets and) Lies
La si potrebbe di buon grado definire una filosofia del piccolo, una sorta di elogio delle piccole cose, quella che sottende l’ultimo film di Mike Leigh Il segreto di Vera Drake, senza per questo pretendere di appartenere necessariamente a un qualche minimalismo di maniera; è piuttosto una prossimità al minimale che si determina nel suo essere un cinema piccolo: budget minimo, confezione narrativa ridotta, piccole figure a calcare la scena (poi sulle cosiddette grandi interpretazioni, Imelda Staunton in primis, si può pure speculare), mise en scène di rara ed ineffabile sobrietà che si pasce di frugali elementi in uno spazio rappresentativo ristretto di definita imprecisione (una qualsiasi città dell’Inghilterra) e in un arco di tempo relativamente breve (1950). Anche le derive tematiche di certa possanza universale (aborto e rapporto tra legge, etica e morale individuale) assumono una svolta “particolare” mantenendosi nell’ambito della individualità della protagonista. Il segreto di Vera Drake è un film che si muove con e intorno al suo personaggio principale ovvero un essere di femminea determinazione che si aggira in ogni dove a dispensare il suo aiuto nei confronti di ragazze “in difficoltà”, una formichina che si industria per il bene della sua specie, dotata di una filoginia che sembra appartenere ai parti più fantasiosi di nordiche, lontanissime mitologie (uno gnomo, oppure una silfide urbana), cosa che la fa assomigliare, lo confessiamo con candore, al personaggio creato dalla penna dello scrittore Alf Proysen Minù Pepperpot (divenuto famoso grazie al celebre manga dello Studio Pierrot). È dunque un film che vive di piccoli, benché repentini, spostamenti di campo, perlopiù verticali, scale, appartamenti, palazzi, algide e asettiche atmosfere a cui Vera Drake dona il suo umano calore preparando fumanti tazze di tè e intonando allegre sciocchissime canzonette. Una pellicola che quindi ama esplorare una società a partire dagli anonimi e poco confortevoli interni della lower middle class nei quali prevale una dominante cromatica fioca, quasi vermeeriana (quel Vermeer più intimista e segreto, s’intende), in cui sono presenti impercettibili e mai invadenti, benché intrusivi, movimenti di macchina che si insinuano clandestinamente nell’intimità familiare, e che lì rimangono nell’attesa di sacrileghe epifanie, sempre saggiamente fuori campo, fuori tempo. Film in punta di sussurri, con qualche lecita grida ma tutto soffocato in una dimensione microcosmica fatta di piccoli sospiri e deboli rantoli. Film di asmatici sorrisi e lacrime sofferte e sincere, soprattutto versate nell’interiorità del conflitto deontologico tra intenzione e atto compiuto.
[Film rifiutato a Cannes e trionfatore a Venezia: cui prodest commentare l’inessenziale?]

Falsa drake
Vera santità innata, circondata da presepe virtuoso, con grossolane e arcigne figure nella controparte agiata (o candidata all’agiatezza: l’amica venale e la bionda insaziabile/consumista): mascherato da quesito morale (Vera colpevole o meno), è un retorico e fazioso dramma classista con ricchi spocchiosi ed egoisti e poveri umili e solidali. Leigh sentenzia tendenzioso, riservando alla protagonista piccolo-borghese tutta la purezza possibile mentre incunea un gratuito percorso parallelo d’aborto nel mondo degli abbienti (con tanto di stupratore vizioso e medici apatici), per rimarcare che la Legge punisce solo i più deboli; non pago, agli antiabortisti dona una voce poco autorevole attraverso il figlio di Vera (zittito con un “Se non li ami, non li sfami”). Troppo programmatico per alzare il dibattito, Leigh gioca invece eccessivamente di ellissi con il personaggio di Vera: ottusa o ingenua nel momento in cui sa di commettere reato ma non la smette più di piangere nelle mani della polizia? Disonesta o premurosa nei confronti dei familiari ignari? Irresponsabile o candida quando rischia la morte delle sue pazienti? Una volta Leigh cantava con sarcasmo i miserabili, differenziandosi dall’arrabbiato Ken Loach per le ambivalenze nate dalla distanziazione: sposando il suo primo personaggio veramente innocente, si perde nel film a tesi. La fotografia dà sul grigio dell’indigenza per mettere in risalto la vivacità colorata della protagonista, che si muove senza psicologia, motivazioni e giustificazioni: come se, a svuotarla di senso, Leigh credesse di preservarne l’irreprensibilità da Buon Selvaggio, cui basta canticchiare, accennare un sorriso, udire un coro angelico per rimboccarsi le maniche e tirare avanti, senza quei pregiudizi che il suo cantore, purtroppo, palesa a piè sospinto, lasciandoci con una sospensione di giudizio dopo il partito preso.
