Drammatico, Recensione

IL SEGRETO DEL SUO VOLTO

Titolo OriginalePhoenix
NazioneGermania
Anno Produzione2014
Durata98'
Tratto dadal romanzo di Hubert Monteilhet
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Sopravvissuta in un campo di concentramento nazista, con il volto sfigurato e avvolto da bende, Nelly Lenz torna a Berlino a guerra appena finita. Sottopostasi a un intervento di ricostruzione del volto, Nelly cerca il marito Johnny, sospettato di averla consegnata alle autorità tedesche.

RECENSIONI

A due anni da La scelta di Barbara, Christian Petzold, paladino della Scuola di Berlino, torna a girare un film sulla Germania postbellica, spostando la lancetta dell’orologio dai primi anni ‘80 al 1945. Rispetto al film precedente, la prospettiva pare ribaltata. In Barbara, la cupezza del dominio sovietico sul piano istituzionale trovava un riscatto su quello degli affetti privati e delle relazioni interpersonali. Ne Il segreto del suo volto, l’apparente ventaglio di possibilità che si apre sul piano politico, con il crollo del regime nazista, è travolto dall’inselvatichirsi dei rapporti umani e dalla brutalità dei sentimenti traditi. Il parallelo si fa evidente nei finali, speculari, dei due film. In entrambi i casi è uno scambio di sguardi e di silenzi fra un uomo (Ronald Zehrfeld) e una donna (Nina Hoss) a scoprire le carte, preludendo tuttavia a sviluppi futuri radicalmente diversi. Come in Barbara, Petzold offre uno sguardo obliquo – quello di una donna, la musa Nina Hoss, costretta a prendere decisioni difficili –, sul passato recente del proprio paese. Confrontandosi qui con il tema dell’Olocausto, il regista tedesco costruisce un melodramma dallo svolgimento improbabile – almeno quanto lo erano le trame di Fassbinder e Sirk, cui Petzold già aveva guardato, ad esempio per Jerichow – e dall’impianto simbolico potente. Un oggetto ibrido e affascinante, frutto dell’ultima collaborazione con Harun Farocki, grande documentarista, insegnante e sceneggiatore scomparso nel luglio scorso.
La parabola di Nelly, nella Berlino bombardata, è racchiusa fra due canzoni d’amore. Night and day, di Cole Porter e, soprattutto, Speak Slow, di Kurt Weill – non a caso un compositore ebreo, tedesco, in esilio negli Stati Uniti dopo l’avvento del regime nazista. Le due canzoni evocano un immaginario che spazia fra le commedie di Broadway e i musical con Fred Astaire e Ginger Rogers. Uno scenario teatrale, luccicante e patinato, in esacerbante contrasto con lo spazio-tempo decostruito e sospeso in cui si muove Nelly.
A Berlino ci sono solo macerie. La guerra è finita da poco. Gli americani occupano un settore della città. Il vecchio mondo è andato in frantumi e quello nuovo è un punto nebuloso. L’identità personale scolora, i superstiti sono evanescenti. Tutti, vittime e carnefici, cercano un nuovo inizio. Nel settore americano, la rinascita ha il volto ammiccante del Phoenix (una fenice, non a caso), l’insegna al neon che accompagna i soldati americani in un cabaret che riedita la Berlino by night di Cabaret e dell’Angelo Azzurro. Lena ha deciso di andare in Palestina. Il marito di Nelly rifiuta perfino di farsi chiamare Johnny. Soltanto Nelly vorrebbe, disperatamente, ricomporre il mosaico nel medesimo ordine, per compiere tutto il tragitto dalla morte alla vita, in un processo di ritorno a se stessa che la renderà, forse, irrimediabilmente diversa.

Speak Slow è quasi un leitmotiv, la canzone delle illusioni svanite – “We’re late darling, we’re late, he curtain descends, ev’rything ends” – che percorre il film dall’inizio alla fine, come un presagio. Sentiamo Night and Day al Phoenix. Ironicamente, Night and Day parla di un amore inesauribile – “It’s no matter, darling, where you are. I think of you night and day”. A cantarla, nella versione tedesca, sono due subrette tanto truccate da risultare irriconoscibili. Johnny, che lavora come cameriere per gli americani, intravvede Nelly e non la riconosce. Qui sta una delle svolte narrative del film, che vira nel tono e nella tensione drammatica. L’evoluzione della trama – imprevedibile fino alla scena precedente, con un senso di sorpresa improvvisa tipico del cinema di Petzold – rimanda a Vertigo di Hitchock e a Occhi senza volto di Franju, con la differenza che a muovere la frenesia manipolatoria del compagno/padre/marito non sarà l’amore ma il cinico interesse economico. Nelly, che arriva a fingersi un’altra – presentandosi come Esther, la parente morta –, uguale e diversa al tempo stesso, ricorda alcuni personaggi interpretati da Greta Garbo, come la Katrin di Non tradirmi con me e la Zara di Come tu mi vuoi. Verso la fine, Nelly, la tradita – che aspetta che passi un treno nella notta ed è avvolta da una nube di fumo –, si trasforma in un’Anna Karenina, cui resta però ancora qualche mossa.
Petzold e Farocki spostano bruscamente il focus, convincendo lo spettatore che il centro di tutto sia un mistero da svelare (che cosa ha fatto davvero Johnny e perché?), un giallo delirante di cui, nonostante i buchi narrativi, intuiamo la soluzione fin dal principio. Ma il centro non sta lì. Questo è, piuttosto, una specie di gigantesco McGuffin dal quale si resta ammaliati. La tanto attesa rivelazione non arriverà nemmeno. Come per i lavori precedenti, Petzold si ispira a classici del cinema europeo e hollywoodiano – Qualcuno verrà di Minnelli per Jerichow, Acque del sud di Hawks per La scelta di Barbara – raffreddandone l’atmosfera e muovendo il baricentro dall’intreccio all’ambigua evoluzione psicologica dei personaggi.
Per gran parte del film, Nelly è una presenza fantasmatica, scivola fra la vita e la morte, quasi come i personaggi di Yella e Gaspenster, i precedenti film di Petzold. Nelle prime sequenze, Nelly non ha nemmeno un volto. All’inizio, in auto, è il viso dell’amica Lena a stagliarsi nel buio. Nelly è un fagotto di vestiti, una faccia occultata da bende intrise di sangue. Per un po’ non la vediamo direttamente, ma solo attraverso le reazioni di chi – poliziotto, medico, amica – la guarda per scoprirne qualcosa. Quando finalmente la vediamo, con il viso sempre avvolto dalle fasciature, è una maschera di cera che si aggira per i corridoi fra il buio e la penombra. In una scena ambientata nella clinica, nella luce artificiale, Nelly rimane sullo sfondo, quasi sovrapponendosi e confondendosi con un’altra degente – anche questa con il volto coperto –, che si staglia in primo piano. Poco dopo, mentre la compagna esce lentamente dall’inquadratura, vediamo Nelly che prende fra le mani una sua vecchia foto. Sopra il suo volto, nell’immagine, c’è una croce – quella che si affibbia ai morti – appena cancellata. Nelly è una non-morta. In una scena successiva, Nelly e Lena vanno a visitare la vecchia casa ormai crollata. Vediamo Nelly che si guarda per la prima volta allo specchio dopo l’operazione. Lo specchio è rotto in due e l’immagine della donna si duplica. Petzold non teme i simbolismi. Nel percorso identitario di Nelly – sospesa fra allontamento e ritorno – si coagula la storia della Germania, fra memoria e rimozione, fra illusioni di cartapesta e schiacciante senso di colpa.