TRAMA
Da quarant’anni Salgado attraversa i continenti sulle tracce di un’umanità in pieno cambiamento e di un pianeta che a questo cambiamento resiste. Dopo aver testimoniato alcuni tra i fatti più sconvolgenti della nostra storia contemporanea – conflitti internazionali, carestie, migrazioni di massa – si lancia adesso alla scoperta di territori inesplorati e grandiosi, per incontrare la fauna e la flora selvagge in un grande progetto fotografico, omaggio alla bellezza del pianeta che abitiamo. La sua vita e il suo lavoro ci vengono rivelati dallo sguardo del figlio Juliano Ribeiro Salgado, che l’ha accompagnato nei suoi ultimi viaggi, e da quello di Wenders, fotografo egli stesso.
RECENSIONI
'I viaggi sono i viaggiatori'
Nei primi minuti di Alice nelle città, il protagonista Philip Winter scatta alcune polaroid a un panorama che non sembra raccontargli nulla. Winter fotografa elementi caratteristici del paesaggio americano, ciò che gli appare di fronte. Non cerca, ma si limita a attraversare spazi per lui nuovi ma in fondo già noti, finendo per accorgersi che gli sono estranei, nonostante appartengano a un universo sognato e reso mitico. Da quelle inquadrature sono passati quarant'anni. Da allora, fuori e dentro il proprio cinema, Wenders ha mostrato un interesse particolare per la fotografia: non solo è un elemento ricorrente, quasi centrale della sua produzione, ma è diventata con gli anni un'altra carriera, parallela a quella di regista e non meno significativa (l'ultima moglie, Donata Schmidt, è anch'essa una fotografa professionista, e questo ha sicuramente influenzato notevolmente il percorso artistico di Wenders). Data la predisposizione a interrogare costantemente il proprio cinema e il medium stesso, data l'attitudine autoriflessiva mai scomparsa (semmai, accentuata), un'opera come Il sale della terra, documentario dedicato a Sebastião Salgado, sembra presentarsi come un'ulteriore tappa di una multiforme riflessione sulla fotografia che recentemente è passata anche attraverso spot televisivi come questo. Invece Il sale della terra è prima di tutto semplicemente un film su un fotografo. Non un film strettamente biografico, ma un viaggio attraverso la produzione artistica di Salgado dalle origini all'ultima grande opera, Genesis, pubblicata nel 2013. Wenders è qui incredibilmente discreto, al punto di cofirmare la regia con il figlio del grande artista, Juliano Ribeiro Salgado, che gli fornisce materiale video del padre e che trasforma le sue porzioni di film in un racconto dentro un racconto, un diario personale ritagliato all'interno di un'opera tra le più lineari e dirette mai concepite da Wenders.
Molto spesso, in passato, il regista tedesco ha messo in evidenza i limiti della rappresentazione, sia di quella cinematografica che fotografica. Molte delle sue prime opere mettono in scena una cesura esplicita tra immagine e mondo. Negli anni, questa sfiducia si è fatta via via più incerta, fino a tramutarsi nel suo opposto. Il sale della terra appare quasi come il punto d’arrivo di questo percorso teso a dare nuovo credito alle immagini. Non immagini qualsiasi, naturalmente, ma immagini pensate. L’opera di Salgado è presa come modello da Wenders come quintessenza della potenza narrativa di un’immagine: nel film non ci si dilunga sulla tecnica o sulla composizione del quadro, e manca totalmente la componente feticista (in questo caso potenzialmente facile, data la strumentazione del fotografo) più volte riscontrabile nella filmografia werndersiana. Con un tocco semplice e efficacissimo di messa in scena, Salgado è posto dietro un vetro su cui vengono proiettate le sue istantanee. Solo di quando in quando ci appare in scena, nonostante sia, immerso nel nero, costantemente nel quadro assieme alla sua opera. Egli ha così modo di dilatare, con il suo racconto, la storia che di per sé le sue immagini già rivelano. Perché se le foto di Winter esplicitavano il non senso del viaggiare, al contrario quelle di Salgado ci riportano un mondo nascosto, spesso dimenticato, e rendono conto di uno spostamento reale del loro autore, di un percorso spaziale ed esistenziale che dà valore a ogni singola porzione di pellicola impressionata negli anni. Regista profondamente umanista, ma come il fotografo sovente accusato di estetismo, Wenders trova in Salgado un gemello che, al contrario di lui, ha da sempre avuto fiducia in ciò che l’obiettivo poteva restituire. Non a caso, Wenders insiste sul peso concreto che le sue foto hanno sull’opinione pubblica, sull’informazione, nelle battaglie per l’emersione di crisi e conflitti (quasi sempre nel Terzo Mondo) sovente ignorate. Non solo: il film si chiude con la documentazione di un atto concreto e importante: la riforestazione che Salgado e la sua famiglia da tempo portano avanti con il progetto Instituto Terra. Ancora una volta, Wenders sceglie di chiudere un suo film con un messaggio di speranza (e fuori dalla sala, in occasione di conferenze stampa e incontri con i giornalisti, invoca il Nobel per la Pace per Salgado), nonostante un percorso che in quasi due ore rende conto di eventi laceranti messi senza mezzi termini di fronte allo spettatore. Nell’ammirazione rivolta a Salgado, infine, ci sembra di avvertire anche il racconto di un Wenders che non esiste, che avrebbe potuto essere. Di un uomo che ha capito fin da giovane che un vero movimento sarebbe stato possibile e lo ha dimostrato.
