TRAMA
Mildred Pierce viene lasciata dal marito, deve ricostruirsi una vita, attraversa diverse difficoltà, sentimentali e non ma soprattutto ha una figlia ribelle.
RECENSIONI
La nebbia della confusione, della dispersione sensoriale, la bruma mattutina e serale che chiude o protegge, annulla o culla: il melò incontra il noir proprio nelle ombre che li rendono vicini, come in "Ombre Malesi" di Wyler. "Mildred Pierce" è il ritratto di una donna forte quanto debole, oppressa e ribelle per dovere, inquadrata donna, massaia del secondo dopoguerra che fronteggia con lo sguardo feroce e ferito di Joan Crawford un mondo che le si apre pericoloso di fronte. La solitudine è la condizione impostale: abbandonata dal marito, tradita, schernita dalla figlia - il personaggio della Blyth anticipa perfettamente i futuri giovani ribelli, arroganti e già finiti, il lavoro come rivalsa quotidiana. Il mistero avvolge, dopo la stupenda sequenza iniziale, ogni istante, il dubbio si estende come ulteriore enfasi dell'emozione, il flashback tanto caro a Curtiz (si veda "Il giuramento dei forzati") è un giro di vite, spreme dall'intreccio ogni goccia di possibile coinvolgimento divenendo un ri-vissuto sentimentale quasi insostenibile: la maternità, l'amore, il contrasto generazionale, impossibile e per ciò ancor più sanguigno; si attende il crollo, l'eroina Mildred è donna, certo, d'altri tempi e d'altra tempra, la forza con cui affronta le sue onde del destino è l'energia della volontà, dell'orgoglio, molto americano forse, ma pure incredibilmente umano nelle piccole contraddizioni, nell'amore che mostra e che cerca, disillusa e ferita. Che Mildred vinca o perda nulla conta, è il ritratto della Donna che Curtiz costruisce avvalendosi di tutto l'armamentario retorico a sua disposizione: l'hard boiled ha il cuore in fermento, la scorza dura evapora alle prime luci, la notte ha fatto in modo di mentire, un suicidio tentato, uno specchio, una parola.
Ennesimo classico-cult scaturito dal pennello del grande Curtiz, che subito incanta lo sguardo nel gioco di ombre espressioniste della fotografia di Ernest Haller: vedere all’inizio, ad esempio, i tagli obliqui di luce sul volto di Joan Crawford (premio Oscar e rilancio della sua carriera), in quanto personaggio (ancora) ambiguo. Un noir torbido, intriso nella colpa e nella disperazione, virato al mélo in modo rivoluzionario per l’epoca, figlio apocrifo del romanzo (1941) di Joseph M. Cain da cui è tratto, che era un dramma psicologico, non aveva cadavere in incipit, chiudeva con diverso finale e di sicuro non era un thriller (lo scrittore, infatti, non gradì questa trasposizione troppo infedele). Il proverbiale ritmo secco e spedito del regista dà il fiato corto ad alcuni passaggi, la moda di allora delle “scene madri”, sopra le righe, fa sorridere, non persuade la costruzione/organizzazione poco verosimile delle scene al commissariato (dove si giocano due flashback nel racconto di Mildred), con l’ispettore che forse ha trovato il colpevole, forse bluffa (ma è la sceneggiatura ad ingannare lo spettatore), in ogni caso è funzionale all’effettismo dei colpi di scena sul volto dell’omicida. Tutto il resto è di una potenza cinematografica e drammaturgica immane: ogni scena entra sottopelle, evocativa, piena di oscurità, allegorica e non, fra morte, alcol, sigarette, personaggi diabolici (Veda) e opportunisti (l’aristocratico in declino: comunque ambiguo fino alla fine). Come ogni Cain che si rispetti, è torbido anche sessualmente: a parte il simpatico personaggio di Ida interpretato da Eve Arden, donna-maschio cui sono riservate le battute migliori, ci sono un incestuoso bacio finale e una miriade di allusioni. La bellissima casa sull’oceano è dello stesso regista.