TRAMA
Il giovane e dubbioso seminarista Michael Kovak viene inviato a Roma per un corso di esorcismo. Questi è scettico sull’esistenza del Diavolo, ma solo perché non ha ancora incontrato padre Lucas Trevant.
RECENSIONI
Ispirato dall’omonimo “libro reportage” di Matt Baglio, a sua volta riscritto dallo sceneggiatore Michael Petroni, il quarto lungometraggio americano di Mikael Håfström è naturalmente una variazione sul tema dell’esorcismo. Il rito ha una lunga parte introduttiva, che descrive l’ambiente esterno e il percorso interiore del protagonista, poi una progressione drammatica (il seminario e l’incontro con padre Lucas), quindi la virata horror che introduce al climax nella seconda parte della pellicola. Lo stesso esorcismo ci offre un’evoluzione “fisica”: prima rappresentato con segni e presagi, dopo si manifesta attraverso una mutazione progressiva che porta all’autentica trasformazione finale. E’ in questa struttura lineare che si inseriscono gli archetipi del genere: per primo il conflitto logica/paranormale, rispettivamente simboleggiati da Michael (l’esordiente Colin O’Donoghue) e padre Lucas (Anthony Hopkins). Nello sviluppo narrativo germogliano una serie di topoi concettuali e visivi, che si riferiscono tutti alla rappresentazione cinematografica del Diavolo: dai chiodi della crocifissione ai gatti neri, dalla possessione della donna incinta alla biblica pioggia di rane, eccetera. Non mancano neanche gli strumenti di genere per alzare il livello di tensione: si inizia dall’esplorazione necroscopica di un cadavere (peraltro assolutamente slegata dal contesto), si continua con porte scricchiolanti e decibel alti a introdurre le sequenze più esplicite.
Insomma, Il rito va preso per quello che è: puro intrattenimento esorcistico. E nella sua gestione suona particolarmente centrale il ruolo del regista. Autore di 1408, Håfström ha affrontato gli ingranaggi del meccanismo narrativo già in quel film, che nasceva come 'esercizio di scrittura' firmato Stephen King. Nel nostro caso lo svedese gioca la carta della 'storia vera' (la dicitura iniziale per acquistare verosimiglianza cita addirittura Giovanni Paolo II) ma, paradossalmente, lo fa con modalità rappresentative smaccatamente false, incredibili, navigando costantemente tra visioni e apparizioni. Anche il passaggio di testimone tra padre Lucas e Michael potrebbe avere una lettura metalinguistica: non solo si insegna un esorcismo dentro il film, ma è proprio il film sull'esorcismo che si tramanda tra generazioni, da Friedkin fino al 2011. Così si rischia però di sopravvalutare Håfström che, più semplicemente, tenta di ravvivare il genere ma lo ripropone a livello letterale, ricalca la scrittura precedente. In tal caso non possiamo pretendere la definizione degli ambienti e infatti otteniamo una Roma cartolinesca, impaginata in poche inquadrature dal Colosseo fino al Vaticano (la migliore mostra un ingorgo auto col morto). Infine, controversa la scelta degli interpreti: se O'Donoghue risulta troppo composto e inamidato per affrontare adeguatamente il Maligno, dall'altra parte Hopkins è posseduto dalla recitazione alla Hopkins e nell'ultima mezzora esplode suonando diabolicamente, clamorosamente sopra le righe.
La scena clou di questa schematica e del tutto derivativa opera dello svedese Mikael Håfström è quella in cui due giovani, rappresentanti dello scetticismo del moderno, sono chiusi nella stanza che contiene il “vecchio” demonio interpretato da Anthony Hopkins. E vince lo scetticismo, non certo secondo le intenzioni degli autori, quasi intenti a comporre un film di propaganda sulla fede in Dio: prima favoriscono l’identificazione dello spettatore con il miscredente protagonista, poi lo inondano di prove dell’esistenza del soprannaturale. Håfström, purtroppo, non conosce ambiguità, si schiera con il demonio e le sue inequivocabili manifestazioni, ottenendo, non volutamente, che le resistenze del giovane Michael diventino ottusità inverosimili. Anche lo sceneggiatore Michael Petroni lascia poco spazio all’interpretazione altra (schizofrenia) quando, prendendo le mosse dal libro “Storia vera di un esorcista” di Matt Baglio (giornalista che ha seguito il corso di esorcismo a Roma), inventa la scena in cui l’indemoniata sputa i chiodi della croce. Diventa presto evidente che ciò che con tutte le forze produzione, regia, sceneggiatura ed interpreti vogliono è propinare l’ennesimo horror satanico stile L’Esorcista ottenendo, dopo trent’anni di scopiazzature, il premio per la peggior copia carbone. Non c’è evento demoniaco, rituale pretesco, situazione “drammatica” dell’uomo senza fede che non sia stata già vista e detta da quel capolavoro. Azzerato lo sforzo creativo, accertata l’inabilità del regista a trattare anche sottotemi psicologici più raffinati (vedi lo scetticismo di Michael, figlio del trauma della madre morta), resta sul piatto una sbobba che non fa paura e, peggio, sposa il ridicolo involontario nella serietà e convinzione d’approccio. E Anthony Hopkins, più enfatizza la sua recitazione, più fa male al film.