Commedia, Drammatico, Recensione

IL RICCIO

Titolo OriginaleLe Hérisson
NazioneFrancia/Italia
Anno Produzione2009
Durata100'
Sceneggiatura
Tratto daliberamente da "L'eleganza del riccio" di Muriel Barbery

TRAMA

Un lussuoso condominio parigino. Mentre Paloma, giovanissima figlia di un ministro, pianifica il proprio suicidio, la scorbutica portinaia Madame Michel e l’affascinante neoinquilino Monsieur Ozu fanno conoscenza.

RECENSIONI

Paloma riprende la (sua) vita, portando alla luce, con una videocamera a bassa definizione e poche sapienti manipolazioni del profilmico, le storture, l'ignoranza, l'isteria, l'horror vacui di un ménage altoborghese cui gli eventi della vita, quelli che contano davvero, scivolano addosso, come acqua sul greto di un fiume. Paloma si sente come il pesce rosso della sorella, imprigionata sotto vetro, condannata a un'esistenza "già scritta", vuota e ripetitiva, e reagisce nel solo modo che riesce a immaginare: documenta l'orrore del quotidiano e organizza la propria morte. Ma come il pesce rosso, solo stordito dagli antidepressivi, risorge dalla tazza del wc, allo stesso modo la petulante ragazzina dai capelli ispidi apprenderà, a proprie spese, che non tutto è perduto, finché si trova un nascondiglio. E il nascondiglio è la dissimulazione: essere come un riccio, impenetrabili e unici. Come Renée Michel, portinaia dalla testa ai piedi ma con la testa - e i piedi - capaci di oltrepassare la soglia del proibito e dell'esotico (non è casuale che il nuovo vicino sia giapponese: in fondo, nelle grandi città, il vicino è per definizione un alieno) e di far intravedere, fra gli aculei, qualche lampo del proprio irresistibile fascino. Solo questo dà un senso alla vita, e anche alla morte, che non è più, per Paloma, una fantasia o una simulazione, ma un libro abbandonato in una casa ormai vuota.
Il riccio è un piccolo film sibillino, quasi furtivo, che sembra modellato sul passo di volta in volta scattante e ritroso di Paloma. La regista non brilla per originalità, ma riesce a girare praticamente tutto il film in interni senza che si avvertano pesantezze teatrali, anche grazie ai bellissimi intermezzi disegnati che punteggiano la (non) azione, e a trasformare gli spazi di un pretenzioso stabile d'epoca in luoghi metafisici, ora succursali dell'inferno, ora oasi di pace. Qualche sottolineatura letteraria in eccesso, purtroppo, nei dialoghi, a volte decisamente ridondanti (le riflessioni di Paloma sulla nipotina di Monsieur Ozu, la voce over di Madame Michel, che ne sciupa la raggelata soggettiva). Nel complesso, un'opera graziosa, che potrebbe avvicinare più di un lettore - a cominciare dal sottoscritto - al romanzo della Barbery (che ha, forse non imprevedibilmente, poco gradito la trasposizione).
Dimenticavo: Josiane Balasko è sublime.

Dimentichiamo l'eleganza stilistica e l'intensità dei ritratti a cui ci ha abituati il maestro Chabrol, perché “Il Riccio” dell'esordiente Mona Achache, suggerisce appena le solitudini, le nevrosi, le ipocrisie dell'alta borghesia francese effettuando un lavoro di sottrazione rispetto al romanzo che va tutto a discapito di quell'ironia, punto di forza del bestseller di Muriel Barbery, a cui la Achache si è ispirata. Discrezione e delicatezza nella caratterizzazione dell'universo raccontato sembrano essere gli imperativi di una regia che non coinvolge e rende lo spettatore indifferente alle protagoniste e ai loro disagi. Alcune marche stilistiche ancora acerbe però lasciano aperte delle promesse per il futuro: il continuo e quasi feticistico soffermarsi sulle mani che compiono azioni (quelle di Renée, la portinaia, e di Paloma, l'undicenne aspirante suicida.) per completare il ritratto tratteggiato dalla regista; i primissimi piani spesso non frontali dei visi delle protagoniste per registrarne emozioni che possano tradire una interiorità diversa da quella ostentata; la individuazione di un gesto, ripetuto meccanicamente da Paloma per suggerirne la singolare maturità, la precoce e inaccettata appartenenza ad un universo, quello adulto e insieme la volontà di scoprirlo e forse renderlo meno spaventoso. Paloma porta gli occhiali sui capelli per liberare la sua vista da un filtro ed incatenarla ad un altro, questa volta implacabilmente rivelatore e profondamente cinico nella registrazione della vacuità e dell'inettitudine della vita adulta. E' l'occhio della videocamera, regalatale dal padre, in una vertigine di autoreferenzialità cinematografica, (culminante nella citazione esplicita di Chabrol, il cui nome appare sulla costa di uno dei libri custoditi da Renée) che si sostituisce alla lentezza e alla profondità dello scrivere. Se nel romanzo la parola scritta, in forma di diario, è lo strumento utilizzato per conoscersi, capirsi, raccontare i propri disagi e riappacificarsi con il mondo, qui tutto viene affidato ai disegni di Paloma (dal gusto accortamente orientale) e all'immagine catturata, commentata a voce bassa e spesso filtrata da un bicchiere pieno d'acqua o da una boccia di vetro. “La gente crede di inseguire le stelle e finisce come un pesce rosso in una boccia”, dice Paloma fornendo una chiave di lettura chiara alle sue registrazioni, ma anche a quell'insensata scelta, il suo lento e calcolato suicidio. L'unica capace di gestire la verità dell'immagine è la portinaia Renée: davanti all'occhio indiscreto della videocamera, continuerà a recitare la parte che si è costruita. Ma quel riccio apparentemente ruvido, sgradevole, brutto e trascurato, grazie a lei e al colto Kakuro Ozu, nuovo inquilino del palazzo di Rue de Grenelle, non saprà resistere al calore umano e si aprirà lentamente rivelando la sua interiorità colta e raffinata. La regista racconta questa evoluzione mantenendo una sostanziale aderenza con il romanzo, ma lasciando anche ad accennati sorrisi e sguardi improvvisamente distesi il compito di dire, di raccontare, assecondata dalla bravura di una Josiane Balasko, l'attrice che interpreta la portinaia, a suo agio nel ruolo.

Luisa Carretti

La trasposizione del best seller “L’eleganza del riccio” di Muriel Barbey è affidata ad una giovane esordiente con due cortometraggi alle spalle, impegnata anche in sede di sceneggiatura: la messinscena è senz’altro acerba (a volte manca l’Abc: in una delle prime apparizioni della portiera, la vediamo aprire una porta a sinistra dello schermo e comparire a destra) e, soprattutto all’inizio, non riesce a cogliere mood e afflato che sappiano eguagliare la prosa della scrittrice nel ritrarre due “ricci” in parallelo, anche perché, rispetto al romanzo, in un primo momento sceglie di privilegiare il punto di vista della bambina, eliminando le riflessioni della portinaia. Come spesso accade quando si tradisce nel modo giusto la pagina scritta, però, la trasposizione diventa fedele (per quanto più semplicistica) con intuizioni più adatte al mezzo cinematografico, dal diario della piccola sostituito da una telecamera con cui dialoga e riprende i soggetti da criticare spietatamente (vivono tutti in una boccia di vetro come pesci rossi), ai disegni che prendono vita, fino al percorso di resurrezione del pesciolino rosso (assente nel romanzo). Anche se non riesce a restituire il piacere (molto giapponese) dei piccoli rituali del libro, l’opera prende il volo quando si concentra sul personaggio di una meravigliosa Josiane Balasko, il cui rapporto con il vedovo del Sol Levante (con cui guarda, commossa, Le Sorelle Munekata di Ozu), per quanto con toni oltremodo fiabeschi alla Cenerentola, conquista per delicata ed elegante tenerezza. Anche l’inattesa (per chi non ha letto il romanzo) tragedia lascia il segno, come morale sul significato della morte alla luce della vita, e viceversa.