TRAMA
Tre vicende si intrecciano sullo sfondo di una grande città del Nord (Torino). In una famiglia dell’alta borghesia si verifica la scomparsa di un paio di orecchini: ad essere incolpata e licenziata è Maria, la domestica rumena. Ionut e suo fratello minore Victor vivono in un piccolo appartamento di un edificio abitato esclusivamente da extracomunitari: il primo traffica coi ricettatori rom, mentre il secondo si arrangia con lavori alla giornata. Trovatasi improvvisamente senza lavoro, Maria, ex compagna di Ionut, si presenta a casa loro. Marco è un cocainomane in cura al Sert e l’ex moglie gli permette di vedere il figlio col contagocce, scatenando la sua ira: quando Ionut gli propone di svaligiare la villa da cui Maria è stata cacciata, non si tira certo indietro._x000D_
RECENSIONI
Francesco Munzi spezza una costola di Saimir e plasma Il resto della notte, secondo esemplare di “noir sociale” dell’anno, dopo il siderale Gomorra (nonostante l’attribuzione di genere sia stata perentoriamente negata da Massimo Gaudioso, uno degli sceneggiatori del film di Garrone). Presentato a Cannes nella sezione esplorativa “Quinzaine des réalisateurs”, il secondo lungometraggio del giovane cineasta romano (classe 1969) sviluppa e complica l’approccio di Saimir, triplicando l’angolazione narrativa (la famiglia altoborghese, i fratelli rumeni, il tossico italiano) e lacerando con maggiore incisività il tessuto sociale (le varie prospettive di vita disegnano traiettorie inesorabilmente conflittuali). Ma l’incisività non deve essere confusa con la foga: al contrario, lo sguardo di Munzi si fa meno concitato e impetuoso per calarsi in forme più controllate, geometriche, cartesiane. La tumultuosità dardenniana è disciplinata da fermezze à la Haneke e le intemperanze della macchina a mano sono bilanciate da una steadicam che estromette la deflagrazione della violenza per concentrarsi sulle sue ripercussioni emozionali. Uno stile che nel dosare irruenza e rigore si apparenta al cinema di Cristian Mungiu, qui presente anche come scheggia attoriale nel personaggio di Maria (Laura Vasiliu, l’indimenticabile Gabita di 4 mesi, 3 settimane e due giorni).
Noir sociale, si diceva: sintonizzandosi su frequenze di genere (in fondo i traffici di Marco e Ionut si radicano nel milieu criminale, in fondo Maria funge da dark lady), Il resto della notte descrive una realtà in cui esistere è già essere iscritti in un campo di tensioni economiche e culturali. La verità non sta nella spiegazione della contraddizione, la verità è la contraddizione (troppo banale e troppo pungente per essere accettato senza storcere il naso, eh?). I personaggi non si fanno emblemi di modelli sociologici schematici, ma portatori di istanze di sopravvivenza che li sovradeterminano: non è tanto nelle loro condotte di vita che si coglie il senso complessivo del film, quanto nel loro essere imbricati in una dialettica che li assoggetta senza via di scampo (l’unico spiraglio di speranza è legato alla necessità di ricominciare da zero). Certo, non c’è la neutralizzazione e la radicale riformulazione linguistica di Gomorra: il linguaggio del film di Munzi rientra sostanzialmente nelle coordinate del realismo (anche se estraneo agli espedienti del naturalismo), eppure colpisce la determinazione mostrata dal cineasta romano nell’imbastire una narrazione tricipite e nel ghigliottinarla impietosamente al momento giusto: un percorso dal superfluo (le paranoie di Sandra Ceccarelli) all’essenziale (la stretta di mano di Victor a Maria) che fa degli ultimi trenta minuti di film uno straordinario esempio di cinema morale e viscerale. Applausi fino a spellarsi le mani per la prova di Constantin Lupescu (Ionut) e per la fotografia all’ossidiana di Vladan Radovic (già direttore della fotografia di Saimir). Il presente del cinema italiano è nero, socialmente nero.

Non facile passare all'opera seconda dopo un debutto (il riuscito Saimir) premiato un po' ovunque per la capacità di emozionare senza incappare in facili schematismi. E infatti Il resto della notte conferma la sensibilità di Francesco Munzi ma non convince in pieno. Forse è troppa la carne al fuoco, con uno sguardo che si fa triplice per abbracciare etnie e classi sociali differenti. C'è la famiglia borghese, il pregiudicato cocainomane allontanato dalla moglie e dal figlioletto e la ragazza romena fresca di licenziamento che ritrova l'ex malavitoso. Tutti accomunati da infelicità e voglia di riscatto. Chi è ricco ha paura di chi è povero. Chi è povero teme chi è ricco. Le diversità minano la precarietà degli equilibri e riuscire a comunicare il proprio disagio sembra essere sempre più complicato, quasi impossibile. Munzi, però, pare volere evitare qualunque presa di posizione socio-politica. Il suo è un film attento al destino dei personaggi, racconta una storia, non è un'inchiesta finalizzata al dibattito e a distribuire facili etichette (anche se si presta a superficiali strumentalizzazioni). La neutralità del regista, obiettiva sulla carta, non trova però il supporto della sceneggiatura, attenta alle psicologie, ma forzatamente uniforme nello spalmare colpe e mestizia. Il pessimismo di fondo non risparmia infatti nessuno, ma l'equità delle perdite (vedi il drammatico epilogo) e il nero diffuso finiscono per vanificare, paradossalmente, la lucidità delle premesse, smascherando la rigidità dell'approccio e rendendo tutto sommato prevedibile il corso degli eventi, teso a mostrare tutti perdenti nei confronti della vita. Ad aumentare la distanza tra onestà d'intenti ed efficacia del risultato contribuisce anche la caduta nello stereotipo di alcuni personaggi, soprattutto nella descrizione della coppia borghese, con gesti e comportamenti più vicini a un'idea di classe sociale che alla verità di rapporti alla deriva (la depressione di lei, l'amante di lui, la tetraggine imperante, lo svago di entrambi a teatro, costumi e scenografie di decadente sobrietà). Ad allontanare dal cupo ménage è però anche lo straniante doppiaggio di Aurélien Recoing. Più riuscita, anche se non priva dei luoghi comuni dell'arte di arrangiarsi, la caratterizzazione dei migranti romeni, con un ben assestato cambio di prospettiva determinato dall'evoluzione del personaggio della donna di servizio; fin troppo calibrata nell'economia della narrazione, poi, la negatività del ricettatore italiano (Stefano Cassetti, il migliore del cast), quasi a voler sottolineare che non tutto il male viene da est. Nella luce fredda che illumina un nord Italia volutamente privo di identità (scelta che accentua il distacco), tra le note minimaliste e nymeggianti di Giuliano Taviani, una sequenza si stampa nella memoria: il fuori scena della resa dei conti attraverso il terrore stampato sul volto del più giovane dei rapinatori. L'unico momento in grado di emozionare veramente in un film minato da una programmatica desolazione d'insieme che finisce per togliere freschezza alle apprezzabili intenzioni.
