TRAMA
Michele, ragazzo timido e riservato, vessato dai bulli della scuola, scopre di avere il (super)potere dell’invisibilità.
RECENSIONI
Il ragazzo invisibile è un prodotto molto progettato, molto pensato. Lo stesso Salvatores, parlandone, enuclea più o meno per filo e per segno tutti gli elementi che aiutano a capire cos’è il suo film. Operazione trans mediale (fumetto, romanzo), prima produzione supereroistica italiana di ispirazione americana, pubblico elettivo multi generazionale, ipotesi di saga e di serie televisiva future. Forse è questo, uno dei maggiori limiti del film: l’eccesso di progettualità che si traduce in freddezza e mancanza di vera identità. Ci sono tutti gli elementi del Marvel Movie, in particolare SpiderMan e X-Men, vagamente ma non abbastanza italianizzati. C’è uno sforzo produttivo importante che però produce effetti altalenanti, raramente chiari nelle loro intenzioni: look artigianale old style o ipotesi più ambiziose? C’è un tentativo più europeo di inserirsi nella realtà, di parlare di sentimenti con un risultato che però, in fin dei conti, non si discosta molto dal modello originario Raimi-ano. La sola, vera scelta di campo è l’abbassamento di età, lo slittamento generazionale, dichiarato fin dal titolo (il ragazzo invece del proverbiale uomo).
Ma il risultato è che, alla fine, non si capisce bene cosa si sta guardando: un film di supereroi? Una scopiazzatura in minore di un blockbuster supereroistico americano? O piuttosto una sua rilettura italiota? E non ci sono anche tratti di parodia destrutturante alla Kick-Ass? C’è un po’ di tutto, ne Il ragazzo invisibile, in un andamento a singhiozzo senza soluzione di (dis)continuità. Non giovano alla causa certe derive trash probabilmente involontarie (la figura di Andreij), una direzione degli attori zoppicante (spiace dirlo ma i ragazzi sono, complessivamente, imbarazzanti) e una sceneggiatura che rispecchia le sfasature del film preso nel suo complesso: sottotesti esplicitati alla bell’e meglio (lo psicologo che parla agli alunni dell’invisibilità adolescenziale), personaggi schematici fino al fastidioso (il padre di Brando) slanci sentimentali narrativamente ingiustificati (la facilità con cui Stella accetta il suo amico/fidanzatino invisibile), paradossi spazio/temporali (la scuola sembra uscita un po’ da uno school movie americano un po’ dal libro Cuore, non si capisce quanto intenzionalmente) e indecidibilità assortite (Michele “si vede” o no? Fa la doccia senza accorgersi della sua invisibilità ma poi davanti a scuola si toglie il guanto e di fronte alla mano che non c’è dice - sono un mostro -).
Certo, magari è vero che operazioni del genere fanno bene al cinema italiano, che Salvatores sono comunque anni che tenta strade diverse, alternative (Nirvana, Quo Vadis Baby?) e gli vanno riconosciuti il coraggio e il merito di provarci. Sulla carta, insomma, viene da schierarsi dalla sua parte, augurandogli almeno un grande successo di pubblico. E ammettiamo ma non concediamo che le molte ingenuità potrebbero essere ascrivibili allo status di prodotto (soprattutto) per ragazzi. Ma anche i ragazzi meritano di meglio. E il film è proprio bruttarello.
Nel corso della sua carriera ormai quasi trentennale, Gabriele Salvatores si è reinventato una mezza dozzina di volte. Dopo il successo planetario di Mediterraneo (1991), film di matrice pseudo-storica che in un certo senso coronava il periodo nostalgico-amarotico di Marrakech Express (1990) e Turné (1990), e che anticipava la voglia di fuga manifestatasi prepotentemente in Puerto Escondido (1992), il regista si è buttato a capofitto nel sistema dei generi, cimentandosi anche in quelli tradizionalmente poco italiani. Finora l’esempio più eclatante era stato Nirvana (1997), film di fantascienza cyberpunk ma ancora radicato nell’universo italofono del suo cast, a cui si aggiungevano Christopher Lambert e Emmanuel Seigner a testimoniarne le ambizioni internazionali. Primo sintomo di un rinnovamento nella carriera del regista campano, il film era stato un tentativo coraggioso di conciliare i milanismi concitati di Abatantuono, tragico personaggio cosciente della propria condizione di prigioniero all’interno di un videogioco, con la calcolata misuratezza di un Lambert al crepuscolo della carriera di eroe d’azione della Hollywood minore. Numerose altre avventure nel sistema dei generi hanno seguito questo esperimento, fra cui ricordiamo Quo Vadis, Baby (2005), noir bolognese al femminile, e il recente Educazione siberiana (2013), storia di gangster transnistri ambientata negli anni ’80 e con cast tutto internazionale. Il ragazzo invisibile (2014) è da situarsi in quest’ottica di escursione, di curiosità verso un cinema altro, o meglio un cinema che siamo abituati a considerare degli altri. Se l’americana Marvel monopolizza da anni il mercato dei supereroi con i suoi numerosi baracconi roboanti e ripetitivi, allora un tentativo, riuscito anche solo in parte, di proporre una versione italiana (triestina perlopiù!) di una classica “origin story” si può accogliere a braccia aperte. Il film funziona molto bene per il suo target di pubblico, inserendosi senza ambiguità in una tradizione di prodotti cinematografici e televisivi che dipinge la scuola come una serie di avventure rocambolesche e sentimentali, scostandosi quindi chiaramente dalla vita di tutti i giorni, e offrendone una lettura romanzata tutta d’evasione. In questo universo ogni cosa è amplificata, proprio come i sentimenti di un ragazzo pubescente: un bullo un po’ ottuso si trasforma in un gangster violento al servizio di un sadico burattinaio, una potenziale figuraccia diventa una traumatica umiliazione pubblica, un padre severo sembra un tiranno odioso. Volendo essere puntigliosi, possiamo concedere che Il ragazzo invisibile si macchia di peccati minori, quale la fastidiosa abitudine di ritornare, forse per convenzione, forse per pigrizia, ai modelli statunitensi anche quando non hanno nulla a che vedere con l’universo stabilito dal film. Ma questo non toglie che il film si piazzi solidamente come un’alternativa valida e artisticamente matura alla pletora di supereroi, per bambini e non, rigurgitati sugli schermi di tutto il mondo dall’industria americana, e moltiplicatosi negli ultimi anni a perdita d’occhio.