
TRAMA
Il 20 Novembre 2012, Andrea Spezzacatena, un ragazzo che aveva appena compiuto 15 anni, si tolse la vita. Fu il primo caso in Italia di bullismo e cyberbullismo che portò al suicidio di un minorenne. Questo film è tratto dalla sua storia.
RECENSIONI
Di rosa si può morire. È quello che è successo ad Andrea Spezzacatena, che nel 2012, a 15 anni, senza lasciare alcun biglietto, si tolse la vita impiccandosi con una sciarpa. Fu la prima vittima di cyberbullismo in Italia. Vittima di odio omotransfobico. Margherita Ferri traduce in immagini le parole della madre, Teresa Manes, contenute nel suo libro di memorie Andrea oltre il pantalone rosa. Il film si apre con la nascita di Andrea e prosegue con il breve, veloce, racconto della sua infanzia per poi approdare alla primissima fase dell’adolescenza che coincide con il liceo e i primi innamoramenti. Più che la cronaca di una morte annunciata, il film intende celebrare la vita e i sogni di un ragazzino come tanti. La famiglia, la scuola, gli amici. Il teen movie è un genere poco frequentato dal cinema italiano, assai insidioso con i suoi codici che mescolano inquietudine e ribellione, irruenza e desiderio di accettazione. Brava, ordunque, la regista per aver voluto misurarsi con una storia tanto “difficile” quanto urgente. Ferri evita di indugiare nel dramma spinto e nel lacrimevole, per quanto il pathos nella seconda parte prenda il sopravvento. Il tono sobrio e misurato fa da contraltare ad una vicenda il cui epilogo tragico è noto, malgrado si speri possa imprevedibilmente sterzare e non compiersi. Andrea è un ragazzo brillante e intelligente. Pieno di talento (canta nel coro bianco della chiesa; si esibisce di fronte al Papa) e appassionato cinefilo. Con la sua amica del cuore della terza C (Sara Ciocca, giovanissimo talento da tenere d’occhio) ogni sabato va al cinema segnando i voti su un quadernetto per poi a fine anno stabilire il film più bello (tra questi pure Jules e Jim di François Truffaut, visto al Cinema dei Piccoli in Villa Borghese). Il bullo della scuola, Christian, biondo bello dannato, manipolatore e opportunista, inquadrato in tutta la sua meschina ambiguità, è l’esatto opposto. Ferri crea tra loro una sottile e pudica tensione omoerotica; frutto di un rapporto storto e sbilenco, dove l’ingenuità di Andrea soccombe alla scaltrezza di Christian. Andrea se ne invaghisce subito. E un po’ lo teme, un po’ lo respinge. L’attrazione è palpabile. È la prima cotta, il primo timido desiderio. Christian lo tradirà nel peggiore dei modi, umiliandolo e bullizzandolo. Chi sono i buoni e chi i cattivi è chiaro sin da subito. I topoi del genere lo impongono. Il racconto di formazione passa anche attraverso lo studio di caratteri e maschere che svelano i passaggi, sovente oscuri, della perdita dell’innocenza, dove odio, amore, tradimento si intrecciano senza filtri né mediazioni. I pantaloni rosa sono quelli che la madre (una accorata Claudia Pandolfi) per sbaglio, lavandoli, farà stingere e sbiadire, e che Andrea continuerà ad indossare malgrado le prese in giro «perché se no vincono loro». Il film, didascalico e schematico, non si eleva da tanto cinema medio che, per tono e messa in scena, somiglia ad un prodotto da piattaforma. È spigliato e ritmato, ma anche privo di uno sguardo personale capace di lasciare il segno e dirci, oltre la cronaca, qualcosa di più profondo sulla natura perturbante e tigliosa dell’adolescenza. La voce fuori campo di Andrea, narratore onnisciente, che dall’aldilà commenta i fatti, poiché tutto già sa e conosce, è un’intuizione brillante che stempera la dimensione luttuosa, e conferisce, sia pure in mezzo alla tristezza e all’ingiustizia, delicatezza e levità.
