TRAMA
Il giovane Peter, orfano di guerra che vive con un anziano parente dei genitori, un mattino al risveglio, dopo essersi lavato come d’abitudine, scopre con meraviglia che i suoi capelli sono diventati verdi.
RECENSIONI
Prima dell’esilio in Inghilterra a causa delle famigerate liste di proscrizione del senatore McCarthy, Joseph Losey (entrambi del Wisconsin) fa in tempo ad esordire in patria con una manciata di pellicole che, fatta eccezione per Lawless (Linciaggio), esposizione melodrammatica di un tema razziale contaminato da un manicheismo senza pudore, esulano da una parte dalla linearità protocollare hollywoodiana e da un’altra presentano i prodromi di un percorso estetico declinato su certa estetica dell’ambiguità in un cinema che andrà sempre più affinando il suo stile.
Il ragazzo dai capelli verdi del 1948, primo lungometraggio, al di là dell’apologo d’ascendenza exuperyana nella quale vengono tematizzati argomenti di sicura densità come pacifismo e xenofobia (o per meglio dire allofobia), annuncia una personale elaborazione formale che lavora alacremente sulle modalità di costruzione della fabula. Il registro espressivo adottato, improntato su soluzioni accostabili a quel realismo magico che farà capolino non senza una certa frequenza e compiacenza nell’opus loseyano (La zingara rossa, Hallucination, Messaggero d’amore), a partire dalla scompaginazione narrativa che gioca, grazie all’espediente dei flashback, con atmosfere di divertita trasfigurazione, risulta l’elemento centrale del film e quello che ce lo fa riapprezzare ulteriormente a distanza di anni, a dispetto delle contorsioni concettuali annodate intorno ai due assi tematici del pacifismo e dell’anti-razzismo, con tutte le divagazioni del caso (il rapporto sagacemente ribaltato anzianità-fanciullezza, centro urbano-campagna) che pretendono una qualche riflessione sul tema della diversità (anticipando comunque in qualche modo le fobie socio-politiche di un paese che si irreggimenterà e irrigidirà su una presunta ostentata identità nazionale).
Appare già con una certa evidenza l’intento loseyano di non risolvere, o quanto meno affrontare, le problematiche enucleate dal film mediante una facile testualità discorsiva basata principalmente su situazioni dialogiche, ma di affidarsi a una costruzione meno semplicisticamente teatrale (ciò che rappresenta il decisivo salto di qualità per un autore che aveva mosso i suoi primi passi, e che ad ogni modo non abbandonerà mai, proprio in ambito teatrale) e più cinematografica, fondata dunque sulla (o sulle) sintassi dell’immagine in movimento, sulla risoluzione di questioni eminentemente visive. Motivo per cui sfrutta a pieno merito la voga del technicolor per disegnare la sua favola sulla diversità a partire dalla tavolozza cromatica, abbandonandosi felicemente alla connotazione di soluzioni scenografiche di folgorante visionarietà, come la fuga nel bosco di Peter (un Dean Stockwell già star scelta da Henry King per interpretare Deep Waters, altra opera su orfani abbandonati) e l’incontro fantastico con gli orfani di guerra dei manifesti.