Il Racconto Cinematografico

Il cinema fonde teatro e romanzo: la classica contrapposizione fra narrativa e dramma viene composta in unità dalla nuova arte, che abolisce la storica distinzione.
_x000D_L'osservazione appena riportata, nella sua assolutezza tranchant ma inesatta – come mostra la letteratura naturalista, antesignana della struttura del racconto cinematografico con la sua scansione per blocchi giustapposti di scene senzasommari di raccordo o al più coordinate da minimi riassunti (affidati alla voce dei personaggi più che del narratore) – rivela meglio di altre il taglio soggettivo e impressionistico, quando non apertamente idiosincratico, del trattatello di Marie Anne Guerin, docente di cinema all'Università di Parigi, il cui momento saliente è l'analisi – condotta attraverso tre film considerati emblematici – di come il cinema s'impossessò dell'arte del racconto piegandola alla logica di un'arte visiva e ricreandola secondo le proprie tecniche peculiari.
_x000D_La singolarità del linguaggio cinematografico sta infatti nel suo essere racconto – non mera espressione o rappresentazione – la cui parte più importante è tuttavia svolta attraverso le immagini e lo sguardo che le ordina e le coordina: autentico oggetto del racconto cinematografico non è la fabula ma un non detto che il film cerca di attingere attraverso il visibile. Ciò è vero in tre sensi: sul piano della stretta denotazione (che cos'è la lenta panoramica su un ambiente se non l'equivalente di una delle celebri descrizioni di Balzac?); delle figure retoriche (semantiche, sintattiche, di pensiero) che ne costellano il discorso; della connotazione che queste veicolano. Ed è tanto più vero se si pensa, nota l'autrice, che in ogni caso più forte dell'oggetto della narrazione è il gesto del racconto cinematografico: di esso resta memoria nello spettatore, a esso è collegata l'emozione dell'appassionato, in esso è la cifra del grande autore.
Guerin si sofferma su tre momenti significativi nella definizione del racconto cinematografico. Non casualmente, tali momenti si concentrano nel periodo del muto immediatamente successivo ai primitivi incunaboli: la fase in cui il cinema non era più bizzarro esperimento modernista e balbettio espressivo, e non subiva ancora l'imperio del genere – dettato dalla pressione omologatrice dell'industria – e dei codici di rappresentazione implicàtivi. Non staremo qui a lamentare la scelta di un film minore e poco significativo di Griffith, o il silenzio sull'innovazione linguistica fondamentale del Cabiria di Pastrone (che con l'uso sistematico della carrellata influenzò i grandi maestri dell'epoca, a cominciare proprio da Griffith); noteremo invece che le osservazioni dell'autrice procedono rapsodicamente in modo spesso suggestivo, talora ellittico e non del tutto trasparente.
L'esame si appunta su tre tipi di racconto – il melodramma d'ambientazione storica, il romanzo d'ascendenza zoliana, la parabola morale – e sui mezzi espressivi di ciascuno. Ad esempio, per Le due orfanelle (1921) di Griffith si analizza lo strumento linguistico del montaggio alternato (già introdotto dall'autore americano in The Lonely Villa che è del 1909), il presupposto narratologico di questo (la presenza di un narratore onnisciente) e le sue implicazioni espressive (la suspense).
_x000D_I tre film (gli altri due essendo Rapacità di Stroheim e Aurora di Murnau) vengono poi confrontati sotto il profilo della modalità dipresentazione dei personaggi: il primo piano, che allude a un fuori campo interferente con l'oggetto della visione e favorisce l'identificazione dello spettatore col personaggio; l'ambiente e i gesti, che rivelano in poche inquadrature la natura sociale e psicologica dei personaggi; l'allegoria, che mantiene figure e vicende in una dimensione lirica e astratta al tempo stesso.
L'autrice analizza poi alcuni aspetti del linguaggio cinematografico: il flashback, il trasparente (sottolineandone l'effetto di amplificazione dell'artificiosità del mezzo), il corpo degli attori e la loro voce, che potrebbero definirsi segni linguistici al quadrato. Qui Guerin si collega implicitamente alle riflessioni barthesiane sulla persistenza dei corpi e delle voci, una variabile indipendente dal racconto – a cui l'autore deve prestare particolare attenzione in relazione all'effetto di senso perseguito – di cui l'icona attoriale è dispensatrice. Infine, largo spazio viene dedicato allo sguardo che scruta un personaggio: agli estremi opposti, la ripresa di spalle che lo insegue (celebri le riprese hitchcockiane di corpi opachi e di personaggi inaccessibili), e quella frontale che dialogando con esso infrange il tradizionale patto narrativo (la Nouvelle Vague). Un passo aggressivo ed eccentrico è quello compiuto sotto questo profilo da Von Trier e i suoi epigoni: la m.d.p. viaggia seguendo la tensione del racconto, vi si intromette, può perfino "rinunciare all'inquadratura" (nel senso di delimitazione dello spazio) e consacrarsi al flusso dell'azione drammatica. Per tal modo, è lo stesso concetto di fuori campo a essere neutralizzato, perché lo sguardo del regista non fa che gettarsi ossessivamente, compulsivamente, su ciò che accade in campo. In questo rifiuto del sottinteso formale, che fa da pendent alla pedagogica unilateralità tematica, è forse racchiuso il senso – la forza, i limiti – della drastica poetica del Dogma, che sembra peraltro aver raggiunto un punto di non ritorno e viene oggi contraddetta di fatto dai suoi stessi vati. Non è allora un caso se il denso libretto (il cui apparato iconografico è generosamente esplicativo) si conclude col riferimento a due esempi di personaggio-spettatore-voyeur-regista, che torna a inquadrare, registrare, interpretare la realtà nella sua incessante dialettica col fuori-campo: il classico de La finestra sul Cortile, e il moderno di Parla con Lei.