Drammatico

IL PRINCIPIO DELL’INCERTEZZA

Titolo OriginaleO principio da incerteza
NazionePortogallo/Francia
Anno Produzione2002
Durata133'
Sceneggiatura
Tratto dada Jóia de Família di Agustina Bessa-Luìs
Fotografia

TRAMA

RECENSIONI

94 anni a dicembre e non li dimostra, anzi li dimostra tutti, per fortuna sua e nostra: De Oliveira trionfa degli insulti del tempo e di quelli – molto più pericolosi – della distribuzione italiana, che non rispetta l’abituale embargo di dodici/quattordici mesi e propone, in questo inizio di stagione disfatto di polemiche lagunari, il film più recente del regista portoghese, presentato all’ultimo Festival di Cannes.
Quattro personaggi alle prese con l’amore e la morte in un pugno di interni ed esterni: punto di partenza è un romanzo di Agustina Bessa-Luìs, ma Shakespeare, Racine e Flaubert non tardano a fare capolino. Due amici d’infanzia che si scoprono nemici in amore (ma la verità è anche un’altra, nascosta e terribile), due donne apparentemente agli antipodi (il giglio verginale e luttuoso e la rosa perduta e pungente), due narratori (i fratelli cui spetta l’onore d’introdurre, in una lunga, dissanguata, ammirevole scena di dialogo, l’antefatto della vicenda) indulgenti e sarcastici, due mondi (l’aristocrazia congelata in un tramonto perpetuo e una borghesia rampante e di pochi scrupoli), due categorie etiche ed estetiche (il profano e il sacro), il Bene e il Male, diavoli e angeli a confronto.
Disposti i pezzi sulla raffinatissima scacchiera (magistrali le luci di Renato Berta), De Oliveira dà il via a una partita al massacro regolata dal principio dell’incertezza, in due accezioni formalmente distinte, sostanzialmente identiche: dove il dubbio inizia, lì è l’essenza vincolante. Un dubbio che all’inizio sembra osceno, sterile e cinico, ma finisce per essere l’unica chiave disponibile per (tentare di) aprire le porte chiuse di questo dramma cameristico (in più di un senso), percorso da un filo rosso sangue di umorismo elegante e grottesco. Angeli e demoni sono più simili di quello che sarebbe opportuno, il Bene e il Male si attraggono più di quanto non si combattano (il ricordo di Giovanna d’Arco), l’incertezza non si scioglie fino all’ultima inquadratura. Forse.
Il dialogo scintillante di Party, le alchemiche geometrie de I Misteri Del Convento, il potere del Verbo (e del verbo) di Parole E Utopia, la disperazione stilizzata de La Lettera, la commovente sagacità di Ritorno A Casa formano l’ordito su cui il regista dispone la trama, un sudario sul quale vizi e capricci umani tratteggiano un racconto (im)morale affine all’exemplum medievale e al vaudeville. Lunghe teorie di corridoi e salotti, immagini nelle immagini e attraverso le immagini (portici, quadri, specchi, vetri), ombre che si rincorrono, istanti che si echeggiano (lo sposalizio e la serata nel pub, l’incubo di Camila e il battello dell’inizio): il tempo fugge (la successione di due inquadrature della città di Oporto, di giorno e di notte, come stilizzato orologio) ed è sempre meno facile distinguere la realtà dalla simulazione (i paesaggi “in fuga” visti attraverso i finestrini di un treno fra vita e sogno, la maschera abbandonata).
Nei divini, infiniti piani sequenza, nelle inquadrature fisse che sembrano dipinte con supremo artificio, nelle spire barocche di un dialogo crudele e acutissimo emergono gli abissi della vita e i vertici dell’arte. Un film assoluto, come sempre sconcertante, impalpabile e implacabile: attori perfetti (Baldaque e Silveira in particolare), musica divinamente infernale (Capricci di Paganini).