TRAMA
Neoeletto Presidente dell’Argentina, Hernán Blanco è chiamato a partecipare al suo primo summit internazionale. In quest’occasione imbastirà un gioco politico ambiguo, mentre una crisi famigliare riporta a galla un passato oscuro.
RECENSIONI
Hernán Blanco è il neoeletto Presidente dell’Argentina ma è anche un uomo comune, privo di forzature ideologiche e intellettualismi. È quello che vedi, Hernán Blanco, tanto aderente alla sua immagine pubblica da scomparire agli occhi di collaboratori, colleghi e rivali. Tutti lo consigliano, lo incoraggiano, lo criticano, nessuno però sembra considerarlo all’altezza della situazione. Specie ora che il Presidente è chiamato a partecipare al suo primo summit internazionale in compagnia degli altri Presidenti del Continente, per decretare la nascita di un nuovo organismo sovra-statale che possa raggruppare i paesi del Sudamerica e imbastire una politica energetica comune. Il summit si terrà in un lussuoso albergo sulla cordigliera delle Ande, un Overlook Hotel dal sapore anni ’80 avvolto da un orizzonte di neve candida che isola gli uomini di potere da ogni elemento di realtà. Lo stesso colore ritorna nel personaggio protagonista (interpretato da un bravissimo Ricardo Darín), come se Santiago Mitre avesse voluto impostare fin da subito il suo discorso politico sul contrasto fondamentale che oppone il candore cromatico alla corruzione del potere. Ma se l’imbastitura retorica sussiste, e prosegue effettivamente lungo il film dall’inizio alla fine, qualcosa non torna in quest’opposizione di fondo, qualcosa di irriducibile alla schematizzazione perché troppo complesso, sottile, metafisico quasi, un qualcosa che parla la lingua del male e sogna la figura del diavolo. Durante il viaggio verso il summit, l’aereo presidenziale su cui viaggia Blanco viene squassato da una turbolenza, una vibrazione che impatta in un primo momento sulle pareti di metallo e sui corpi dello staff politico ma che sembra poi, scena dopo scena, reiterarsi e riverberare ancora, dissonanza sotterranea che finisce per aprire le porte del passato e dell’inconscio.
Il Presidente è un film sulla politica che veste l’abito del thriller, un dramma umano che assorbe le meccaniche di genere congelando però tempi e situazioni. L’alternanza è quella canonica tra dimensione pubblica e privata, ma nell’intreccio delle due sfere Santiago Mitre riesce a imbastire una riflessione morale che ha un doppio livello di significato.
Il primo è quello eminentemente politico, che guarda al machiavellismo intrinseco all’esercizio del potere e gioca sulla contrapposizione di cui si è detto tra il bianco e la corruzione. Hernán Blanco del resto si presenta come l’uomo comune che non ha niente da nascondere, una figura ben nota anche nella nostra scena politica e di cui Mitre sottolinea le forti ambiguità di fondo, le strategie retoriche occultate, le ambizioni svelate. Blanco si candida e vince come uomo esterno all’establishment, uomo nuovo, sennonché nel primo periodo della sua presidenza si trova già coinvolto in una causa legale che rischia di esplodere in uno scandalo, e che riguarda guarda caso fondi pubblici usati illecitamente. Benché sia indubbiamente efficace e ben costruito, questo livello del racconto non si discosta di molto da altre rappresentazioni del potere, analoghe nell’indagare le contraddizioni, i sotterfugi, i patteggiamenti ritenuti necessari nell’azione politica. Ciò che invece rende Il presidente un film diverso e meritevole di attenzione è il modo in cui Mitre si inabissa da qui nell’inconscio al confine con il metafisico, rimestando incubi e peccati per parlarci di patti faustiani. Perché quello di Mitre è un film sul diavolo, sulla presenza tangibile e concreta del male come espressione mentale, corruzione interiore, deviazione intrinseca alla gioventù di un leader. Questa presenza invade tutta la seconda parte del film, a partire dalla magnifica scena spartiacque della seduta d’ipnosi, una raffinata danza di dissolvenze che riporta alla luce tormentate visioni oniriche (tra cui L’incubo di Füssli) ondeggiando tra l’indagine psichica di Hitchcock e l’emanazione maligna di Kubrick, evocato esplicitamente dalla musica impiegata ancor più che dall’ambientazione stile Shining. Da questo momento si susseguono riferimenti evidenti, dai sogni d’infanzia di Blanco alle metafore politiche impiegate per descrivere gli Stati Uniti, dal patto letteralmente faustiano tra Blanco e gli Americani al volto ferito della figlia Marina, che quando resta inchiodata al letto appare fuoriuscita da un’inquadratura demoniaca di William Friedkin.
Presentato nella Festa mobile di Torino 35 – e prima ancora visto nella sezione Un Certain Regard di Cannes nel 2017 – Il presidente è un film sorprendente, estremamente raffinato per come intreccia tra loro i temi della corruzione politica e dell’ambigua semplicità del male, che trova il suo correlativo oggettivo nel tono dimesso e fuori dal tempo del film. Nulla è urlato o sottolineato nel film di Mitre, che anzi si muove in un regime d’indeterminatezza che rilancia la pericolosità del suo oggetto filmico: il volto di Hernán Blanco, maschera insondabile che vanta il suo candore e la sua semplice innocenza, ma dietro la quale si agitano acque limacciose e oscure.
