Drammatico, Recensione, Road movie

IL POSTO DELLE FRAGOLE

Titolo OriginaleSmultronstället
NazioneSvezia
Anno Produzione1957
Sceneggiatura
Fotografia

TRAMA

Isak Borg è un medico in pensione che viaggia da Stoccolma a Lund in compagnia della propria nuora Marianne, una donna infelice ed in attesa di un figlio. Lungo il tragitto Borg rifletterà sul senso della vita e sui suoi sogni irrealizzati.

RECENSIONI

Il posto delle fragole è una sacra sindone da cineforum ad alto rischio ostensione. Instant classic premiato - fatto più unico che raro - sia a Berlino (Orso d'oro) che a Venezia, proiettò il suo autore verso il precoce status di venerato maestro e se stesso verso quello di capolavoro così tanto per antonomasia da rischiare l'effetto Gioconda: venire imbalsamato, esposto in effige, diventare trasparente. È un rischio che non possiamo permetterci perché avremmo tantissimo da perdere da questo racconto archetipico, sempre denso, sul doppio tema della rigenerazione e della generazione. Ci vuole un'operazione di restauro che rimuova gli strati di icona e faccia riemergere il dipinto. Ingmar Bergman, critico di sé stesso molto più lucido di tanti critici troppo pigri per andare oltre l'iconolatria del santino, ha spesso sottolineato il suo debito verso il cinema di genere. Monica e il desiderio, Un'estate d'amore sono teen movie; L'ora del lupo è in buona parte un horror e allo stesso modo sequenze di venerati capolavori come Sussurri e grida e Come in uno specchio condividono la grammatica con Hellraiser. Cominciamo quindi a dire, per sgombrare il campo dal birignao, che Il posto delle fragole è un road movie in senso stretto. Quindi, come il romanzo picaresco da cui discende, è un tragitto (da Stoccolma a Lund), un mezzo di trasporto (che si fa oggetto narrativo catalizzante), un'unità di tempo (un lungo giorno dall'alba al tramonto).


Il viaggio, il racconto, il film hanno un solo centro, motore, motivo: il professore Isak Borg, che sta andando a ricevere un'importante onorificenza in occasione del giubileo professionale. È un nome parlante: "borg" in svedese significa "fortezza". Ed è un personaggio collage, insieme autoritratto proiettivo (Bergman si accorgerà solo in seguito del lapsus per cui gli ha conferito le sue stesse iniziali) e ritratto paterno - e grido d'aiuto nei suoi confronti, anche. È soprattutto il corpo sacro di Victor Sjöstrom, di colui che in principio fu il cinema svedese, diresse capolavori come Il carretto fantasma, emigrò a Hollywood, pose insieme a Mauritz Stiller l'imprinting sulla settima arte nazionale. Per Bergman non fu soltanto un riferimento astratto ma un mentore, un padre d'arte durante l'apprendistato giovanile presso la Svensk Filmindustri di cui Sjöstrom era direttore artistico. Durante una delle passeggiate quotidiane nei boschi presso lo studio suggerì al giovane regista di non esagerare con le inquadrature elaborate e piuttosto "mettere la cinepresa davanti all'attore", un consiglio che diede decisamente i suoi frutti. Al momento del casting Bergman fu categorico: o Sjöstrom o il film non si fa. Nonostante la vecchiaia e la malattia (sarà ricoverato il giorno della prima e non uscirà più dall'ospedale), le resistenze e il malumore, "il grog delle cinque" assicurato per contratto, la continua minaccia di abbandonare il set per frustrazione sventata grazie alle attenzioni delle giovani attrici, ne sortirà una delle più grandi interpretazioni della storia del cinema, capace di suscitare il massimo dell'empatia a partire dal minimo di simpatia e di sublimare una seconda biografia personale "pesante" in un personaggio di valore universale.

Il secondo protagonista, ricorrente nella filmografia bergmaniana almeno quanto Von Sydow o Bjornstrand, è il tempo. Si può pensare Il posto delle fragole come un antesignano di Interstellar, un raffinato ed elaborato meccanismo fondato su un paradosso temporale (proto)quantistico. Si anticipano alcuni temi di Fanny & Alexander, quelli enunciati dalla nonna quando decreta che si è bambini e anziani contemporaneamente o quando legge l'esergo del Sogno strindberghiano sull'inconsistenza di tempo e spazio, sulla cui labile base la fantasia tesse liberamente trame sempre nuove. Il posto delle fragole è picaresco, fatto a tappe, attraversa il tempo ancor più che lo spazio. Ci si muove tra differenti piani (il presente; il passato; il sogno; la premonizione; il futuro anteriore) come da una stanza all'altra di una casa senza porte. È un lungo flusso di coscienza e al contempo un bilancio esistenziale e la "giornata campale" in cui si ricapitola una vita intera - altro grande archetipo, dall'Ulisse joyciano in giù - finché la rappacificazione nel tempo ritrovato coincide col massimo grado di paradosso: salutare i propri genitori molto più giovani di se stessi, durante la prima interazione col passato. La conclusione a cui giunge Il posto delle fragole è la stessa della Recherche proustiana: descrivere "gli uomini, come giganti immersi negli anni, epoche da loro vissute così distanti l’una dall’altra, tra le quali tanti giorni sono venuti a interporsi, nel Tempo". La miracolosa fluidità de Il posto delle fragole si nota anche nel continuo passaggio senza attrito tra registri (il comico, l'elegiaco, il drammatico).

Dal tema discende il simbolo, insolitamente trasparente, dell'orologio senza lancette che può essere interpretato come una premonizione di morte fisica e/o morale, un eschaton della fine dei tempi, ma ancora di più, coerentemente con l'assunto peudo-quantistico sulla reversibilità, come segnale del tempo fuor di sesto, non più limitato dalla gabbia del tempo misurabile. La "giornata campale" è anche il territorio della durata, una libera uscita dal tempo degli orologi. L'oggetto appare tra le mani dell'anzianissima madre (per un ulteriore paradosso interpretata da un'attrice più giovane di Viktor Sjöstrom) e nel celeberrimo primo incubo. Dovendo trovare la grammatica cinematografica adatta ai sogni, Bergman decide di pescare abbondantemente nel cinema muto surrealista e espressionista, nei suoi raccordi, chiaroscuri e giustapposizioni di totali e primi piani come nelle figure topiche (il doppio). Sembra ammiccare visivamente proprio al Carretto fantasma girato qualche decennio prima dal protagonista dell'incubo - un'ennesima inception - mentre narrativamente Il posto delle fragole si rifà al Canto di Natale di Charles Dickens, autore molto amato da Bergman, fin dall'innesco narrativo dell'incubo. È il riferimento letterario più evidente eppure è raramente citato. Inoltre va sottolineato come Ingmar Bergman, uno dei massimi scrittori (non solo per il cinema) del secolo scorso, arrivi sul set con una sceneggiatura sans pareil e poi diventi il regista Bergman, che veicola i suoi "messaggi" in una forma del tutto cinematografica, visiva. Con Il posto delle fragole e il coevo Settimo Sigillo, Bergman si scrolla definitivamente di dosso i residui di realismo convenzionale per assumere linguaggi di messa in scena e narrativi autonomi e autoriali.

Il film, scritto durante un ricovero in ospedale, è una condanna senza appello della generazione che pare una parafrasi di This be the verse di Philip Larkin: «Mamma e papà ti fottono. / Magari non lo fanno apposta, ma lo fanno. / Ti riempiono di tutte le colpe che hanno / e ne aggiungono qualcuna in più, giusto per te. / Ma sono stati fottuti a loro volta / da imbecilli con cappello e cappotto all’antica, / che per metà del tempo facevano moine / e per l’altra metà si prendevano alla gola. / L’uomo passa all’uomo la pena. / Che si fa sempre più profonda, come una piega costiera. / Togliti dai piedi, dunque, prima che puoi / e non avere bambini tuoi.». Il professor Borg è un vecchio misatropo, "cocciuto e pedante", che si è dedicato al lavoro fuggendo dalla vita per incapacità nei rapporti umani, che ha scelto la solitudine per evitare il dolore, una monade morta-in-vita cui, nella sequenza kafkiana dell'ultimo sogno, vengono diagnosticate "indifferenza, egoismo, incomprensione". I rapporti con la moglie sono stati di completa incomunicabilità, con il figlio Evald (Gunnar Bjornstrand) rigidi e formali tuttavia, quando vediamo che vecchia megera raggelante sia la madre, capiamo che l'anaffettività è ampiamente una tara genetica e un comportamento inerziale. Non è un caso che Evald Borg voglia convincere la moglie Marianne (una sottilissima Ingrid Thulin) ad abortire ed interrompere la linea del massacro - vorrebbe anche a sua volta essere morto, per non sentire il gelo nelle vene portato dal sangue Borg. Nel sogno, al fallimento amoroso-esistenziale è associato un fallimento scolastico-professionale (l'unico ambito andato apparentemente alla grande) come se la sindrome dell'impostore si fosse presa tutto. In una scena breve e apparentemente secondaria - evidenziata però dal cameo di Max Von Sydow - il professore di passaggio al paese natale mormora "forse avrei dovuto rimanere qui..." ad operare in un comunità che lo riconosceva e amava. Un'ulteriore dimensione temporale è "quello che sarebbe potuto essere", la vita parallela, la strada che non prendemmo e che avrebbe potuto essere costellata di affetti. Il viaggio on the road occasione di bilanci per definizione comincia con comportamenti paternalisti e maschilisti verso la nuora che mostrano il distacco, il complesso di superiorità del professore e prosegue con un gruppo di autostoppisti che mostrano come potrebbe essere spontanea e allegra la vita e si contrappongono ai  fantasmi dei natali passati (la spaventosa coppia incidentata sadomasochista che si dilania e tormenta, immagine speculare del menage triste del professor Borg). Alla fine, per il professore come per Ebeneezer Scrooge o Jack Nicholson, si potrà dire che qualcosa è cambiato. Succede che la monade cerca legami vecchi e nuovi, si espone per la prima volta, abbandona il paradigma immunitario, cominciando dall'alleanza con la nuora. Come diceva Bataille, "ogni essere è toccato solo nel punto in cui soccombe", dove si apre una ferita.

Il posto delle fragole è un punto specifico, un centro irradiante del mondo psichico, posizionato all'interno di un luogo carico: la casa di vacanza dell'infanzia. Confina con i "luoghi della durata" descritti da Peter Handke, quelli dove si mettono radici, luoghi di per sé poco significativi che fanno da stelle fisse nella galassia psichica individuale. Il posto delle fragole è tanto un luogo quanto un tempo - entrambi passati - cui si accede senza bisogno di attraversare alcuna soglia, perennemente disponibile ("Quando, durante la giornata, mi sono sentito triste o agitato, sono riandato all'infanzia"). È nel tempo-senza-tempo che è il luogo mitico delle origini, ombelico e utero: si passano vite intere tentando di rientrarci. Somiglia alla Combray proustiana ma anche alla camera sambô di Mircea Eliade o a una neverland. Le fragole rosse, poi, sono simbolo erotico, vitale. È letteralmente e simbolicamente una radura ma non differisce troppo dal resto del mondo se non fosse che il bianco e nero si intensifica, il prato, le foglie, investite di luce, si bruciano sovraesposte e abbagliano. È sempre estate, c'è sempre vento e siamo sull'acqua. Nelle prime visite Sjöstrom è un fantasma, osserva, spia, rivive ricordi e traumi come durante una seduta psicanalitica, si stende sull'erba come su un lettino e rimane a bocca aperta di fronte allo squarcio aperto nel tempo. Ma significativamente solo nell'ultimo ritorno, quello che chiude la giornata prima di sprofondare nel sonno (nel tempo), avendo reimparato a legare e empatizzare, il passato lo accetta. La ferita si sana, il tempo è ritrovato e per la prima volta egli interagisce con i fantasmi delle estati passate. L'amata Sara, nella perenne estate dei diciassette anni, lo prende per mano e i propri genitori felici, biancovestiti e per sempre giovani (più giovani del figlio: c'è paradosso/sogno più grande?) lo salutano, lo riconoscono e accolgono nel posto sottratto al tempo (alla morte, suo sinonimo occulto) e restituito al suo nemico mortale: l'amore.

Secondo Bela Balasz il primo piano antropomorfizza l'uomo in tutta la sua variegata tipologia di passioni. Nei muscoli facciali, durante un primo piano, possono svolgersi più microdrammi, più eventi e più drammatici che in una guerra intera. Il primo piano che chiude il film - la risposta di Sjöstrom / Borg al saluto dei genitori - è uno dei più intensi e miracolosi dell'intera storia del cinema. Come per tutti i miracoli, la sua genesi è avvolta tanto nel mito quanto nel prosaico. Ne La lanterna magica Bergman racconta che, il giorno delle riprese, Sjöstrom era particolarmente di malumore, persino più del solito (anni più tardi capii che si trattava di paura e senso di inadeguatezza, un attacco di sindrome dell'impostore speculare a quella del suo personaggio). Abbandonò il set per poi tornarci scontroso e borbottante. «Quando tutto fu pronto, lui arrivò vacillando, appoggiandosi all'assistente di regia, estenuato dal malumore. La macchina da presa partì, il ciak fu battuto. Improvvisamente il suo volto si schiarì, i lineamenti si ammorbidirono, divenne calmo e dolce, un momento di grazia. E la macchina da presa era lì. E funzionava. E il laboratorio non rovinò tutto». Un kairos, l'epifania del dio del cinema che appare squarciando le nubi. In quel primo piano Sjöstrom riesce a mettere tutto, a mescolarlo, a renderlo simultaneo: amore, nostalgia, simpatia universale, disperazione, rimpianto, rimorso, struggimento, pacificazione, tutto, tutti i sentimenti che il professore si è negato per una vita intera si addensano e passano su un volto come un fronte colossale e contorto di nuvole in un cielo altissimo spazzato dal vento. È un finale cosmico che scioglie le meditazioni dolorose del film in un attimo di grazia che, vitalisticamente, riscatta tutto. Come nel finale di Sussurri e grida, anche qui c'è tanta luce e figure in bianco. C'è sempre tempo.