TRAMA
Il giovane Domenico Cantoni lascia il suo paesino della Brianza per partecipare a Milano ad una selezione volta all’assunzione di impiegati in una banca: tra prova scritta, test psicofisici, un colloquio orale e l’agognata assunzione, Domenico avrà modo di conoscere la metropoli, i suoi caffè, una ragazza, la solitudine di un Capodanno.
RECENSIONI
Con "Il Posto" Olmi porta a compimento quel processo di studio e osservazione della realtà lavorativa in veloce evoluzione durante gli anni del boom economico, cui aveva costantemente cercato di dare forma, sin dagli inizi della carriera di cinesta, attraverso una sterminata quantità di documentari e il suo primo lungometraggio "di fiction" ("Il Tempo si è fermato").
Se lo stile delle prime opere è debitore del neorealismo, per una naturalismo di stampo zavattiniano e i dialoghi "di strada", già compaiono alcuni squarci dell'Olmi più maturo, dove un registro più leggero dalle venature grottesche, inserito in una forma "classica", astratta ed essenziale, che predilige la ritualità dei gesti e i tempi dilatati, rappresenterà meglio quelli che saranno i tratti dicotomici della sua (po)etica: le differenze di classe, le gerarchie in ambito lavorativo, i contrasti tra frenesia cittadina e i ritmi "secondo natura" della vita di campagna, tra modernismo e tradizione, tecnologia e ambientalismo.
Sotto la direttrice testuale del percorso formativo e sentimentale di Domenico Cantoni, timido diplomato di provincia proiettato improvvisamente nel ruolo di impiegato nella grande città, Olmi coglie le prime avvisaglie di alienazione connaturata al lavoro d'ufficio, che la dispersione e solitudine metropolitana non fanno che accentuare.
Certo, da un umanista cattolico qual è Olmi, non ci si può aspettare l'anarchico "grido" d'allarme di un Antonioni, né il sarcastico cinismo di Ferreri; ma nello spaesamento originato da caffè brulicanti attorno a proliferanti cantieri, nei riti buffi e inutili della kafkiana prova psicomotoria corale, ma soprattutto nell'acuta analisi di gesti e comportamenti degli impiegati, tic e manie, frustrazioni e meschinerie _ sempre in tono empaticamente ironico, mai derisorio, si potrà cogliere il disagio di Olmi nei confronti di un'esistenza sempre meno a dimensione umana, un disagio mai rabbioso, ma sempre venato di rassegnato disincanto.
Al secondo lungometraggio di finzione, Ermanno Olmi conferma l’amore per i silenzi e gli sguardi pregnanti dei suoi caratteri semplici (all’epoca, il suo cinema era accostato a quello di Pasolini, oltre che al neorealismo), già presenti nei documentari girati da dipendente della Edisonvolta (qui immette ricordi impiegatizi autobiografici). C’è già, anche, l’altra traccia che accompagnerà tutto il suo cinema, la contrapposizione fra la vita genuina di estrazione contadina e quella alienante dell’arrivista società del progresso. È anche un’opera profondamente lombarda, popolata da facce “vere” e non professioniste, mirabilmente “sociologica”: permane nella memoria come documento storico sul volto di una città (i suoi negozi, i suoi cantieri) e di una società (l’Italia in preda al boom economico). È unico il talento del regista nel fotografare la naturalezza dei suoi giovani attori: i timidi sorrisi e gli sguardi spauriti del protagonista, la freschezza un po’ sfrontata della ragazza di cui s’innamora (Loredana Detto, futura moglie di Olmi). Stonano ancor più, allora, certe velleità autorali, presenti soprattutto in due passaggi (l’inattesa descrizione del privato di un gruppo di ragionieri chiusi in una stanza; il finale “aperto”) e che rischiano di rompere l’incanto. La delicatezza del tocco si avverte anche nelle scene dichiaratamente da commedia, se non surreali (il primo sguardo sulla stanza dei ragionieri in preda a vari tic): fra colleghi idioti, invidiosi, capi senza cuore e donne che civettano, Olmi agli stilemi con mattatore della commedia all’italiana preferisce il sussurro e la chiusura in poesia, come la fugace apparizione, a metà film, di un impiegato orbo a forza di scrivere di notte (creare per fuggire da quella grigia posizione; morire con un lascito che finisce in cima ad un armadio fra l’indifferenza generale). Il finale, allora, potrebbe essere amaro: la solitudine è dietro l’angolo.