TRAMA
Un uomo in cerca di lavoro si presenta a due coniugi che gestiscono una taverna sulla strada e si fa assumere come meccanico. Ben presto tra l’uomo e la sensuale moglie del gestore nasce un’inevitabile attrazione che darà luogo a un inquietante ménage.
RECENSIONI
Al di là di ogni possibile discorso sulla sublime inutilità del remake, sul quale per ora sospendiamo le nostre considerazioni, Il postino suona sempre due volte di Rafelson non può sottrarsi al riferimento cinematografico antecedente firmato dalla regia di Tay Garnett, più che un semplice mestierante come una certa critica ha sempre voluto farci passare, soprattutto per l’uso straordinariamente connotativo della fotografia: una notturnità laida e infinita come esemplare metafora di un’America prostrata dalla grande Depressione, un’oscurità splendidamente squarciata dal lucore biondo platino di Lana Turner, che annuncia la tragedia psicologica dell’archetipo “triangolare”. Una claustrofobia ineluttabilmente sporca e nera, anche come denotatum etico, che nessuna luce riesce a dissolvere, a redimere, non quella fredda dei tribunali, non quella incerta delle strade e degli esterni in genere che anzi condurranno in un crescendo straordinariamente drammatico alla fine dei giochi.
Decisamente e volutamente meno cerebrale la rilettura rafelsoniana del romanzo di James M. Cain che si presenta come drammaturgia soprattutto dei corpi, dei sensi (più prossimo alla versione viscontiana di Ossessione la quale costruiva, mediante una perfetta sintesi di materia e forma, il dramma di un paese colpito dalla guerra e dal regime filtrato attraverso un episodio di quotidianità sottoproletaria nella bassa padana), di elementi materici che si amalgamano e si impastano come il sudore dei due protagonisti con la farina nella sequenza di culto che tutti conoscono fin troppo bene anche senza averla mai vista in cui si mostra (finalmente) un erotismo e una carnalità liberati dalle catene della pruderie superegoicamente hollywoodiana. Un erotismo esibito a pieno campo che ne ostenta gli odori, i sapori, i colori di una fotografia funzionalissima nella sua resa quasi sinestetica di Sven Nykvist. Un noir (genere divenuto sorprendentemente d’elezione da parte di un cineasta che un decennio prima con Cinque pezzi facili e Il re dei giardini di Marvin aveva descritto tutto il vuoto pneumatico di un contesto socio-politico alla deriva come quello americano) senza essere troppo ingenuamente nero e lercio, che si affida piuttosto alla sporcizia madida dei corpi avvinghia(n)ti di Jessica Lange e Jack Nicholson (con lo sguardo ancora allucinato dallo shining kubrickiano), una cameriera e un hobo steinbeckiano senza avvenire, violenti, traditori, straccioni, convulsi, appassionati, affascinantissimi nella loro torbida corporalità. Cinema che, in definitiva, riesce a restituire nella sua totalità, non tanto e non solo le atmosfere del romanzo di Cain bensì l’illusione dimenticata (della tensione) dei corpi.
A differenza della pellicola di Tay Garnett del 1946, Rafelson ha facoltà di rendere esplicito e cavalcare tutto ciò che, per costume e censura, allora non era possibile mostrare: ovvero sesso, violenza e pulsioni di Eros/Thanatos. Il racconto di James M. Cain (romanzo del 1943) è impastato di ingredienti forti, la regia di Rafelson, come sempre, è invece intorpidita ed elegante: il risultato è esplosivo, grazie anche a due interpeti che sprizzano amore maledetto da tutti i pori (e gli danno sfogo nella memorabile scena dell’amplesso sul tavolo da cucina). Sven Nykvist filma i colori della carne, del sangue e della passione, Rafelson dipinge in modo magistrale due caratteri multiformi e non sbaglia un fotogramma nel restituirne i pensieri veicolati da uno sguardo. L’atmosfera attrattiva-repulsiva, intrisa di peccato, è semplicemente perfetta, il commento sonoro pure: entrambe si coadiuvano per restituire un’amarezza di fondo che sana le colpe. Dulcis in fundo, il racconto dello scrittore, grazie all’ottima sceneggiatura di David Mamet, dispiega tutte le proprie direttrici folli e complesse, diventando allegoria della vita tout-court, imprevedibile.