Drammatico, Recensione

IL PIÙ GRANDE SOGNO

TRAMA

Mirko (Mirko Frezza) uscito di prigione, cerca di ricostruire il proprio presente onestamente. Eletto all’unanimità presidente del comitato di quartiere, abbraccia il sogno di un futuro sereno per la sua famiglia e la sua borgata su cui lavorare giorno per giorno. E sembra proprio un progetto destinato a rimanere soltanto un sogno, a infrangersi nelle solite ricadute. E invece…

RECENSIONI

Da Una storia normale a Il più grande sogno: il primo è il corto da cui si sviluppa il successivo lungometraggio dell’esordiente Michele Vannucci, diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia. Prima ancora c’è la realtà, quella di Mirko Frezza, protagonista di entrambi i lavori, che si ispirano alla sua vera storia, legata alla strada e alla periferia romana, alla volontà di rivalsa per se stessi e per gli altri. Il salto dalla “normalità” al “sogno” per raccontare la medesima vicenda è interessante, perché fa del quotidiano un terreno di speranza; e insieme fa del sogno qualcosa di strettamente legato al quotidiano. Significa che ogni giorno offre una possibilità e ogni giorno rappresenta un rischio. Questa retorica della strada- del quartiere ai margini della metropoli, della metropoli che è una capitale al collasso ma che continua a reggersi in bilico sulle sue stesse rovine, che non c’è neanche bisogno di nominare perché basta un accento a riconoscerla- dei suoi personaggi che sono già persone, e viceversa, ci è storicamente nota e cinematograficamente familiare. Come Caligari cercò Pasolini, la romanità del pathos, dell’irrequietezza, dei sogni pericolanti e dell’asfalto cerca Caligari, soprattutto all’indomani di quel Non essere cattivo che ha lasciato in eredità – oltre al dramma struggente che chiude in un ciclo trentennale il cult d’esordio - due splendidi attori quali Luca Marinelli e Alessandro Borghi; e un monito: la rinuncia alla crudeltà, alla rabbia nei confronti della vita, alla vendetta che rimette in moto circuiti risaputi e si rivela nient’altro che il fatalistico cedimento a un un’esistenza già scritta, destinata a compiersi perennemente identica a se stessa. La storia di Mirko messa in scena da Vannucci sembra accogliere quell’invito e, proprio quando è sul punto di incanalarsi in un percorso noto, offre invece ancora una possibilità inattesa eludendo il rischio di prevedibilità. C’è però un’aria triste in questo sogno periferico, mista alla tenerezza domestica e agli ostacoli affettivi che accolgono una ribellione tardiva, alla commozione smorzata dal senso pratico, c’è una fragilità tenuta in piedi da una volontà di riconciliazione senza buonismi; c’è un che di risaputo nel mettere insieme il padre assente per attività illegali ma buono e bambinone, la moglie e madre conciliante, la figlia rancorosa, l’amico coatto ma con amore, che trova nella romanità di “Boccione” (un Borghi funzionale ma minore) gli spunti comici del film.
Insomma, dopo il bagno di sangue di Suburra (Sollima 2015), fra droghe, donne, cani idrofobi, preti, boss e parlamentari; dopo la fumettistica epicità metropolitana di Lo Chiamavano Jeeg Robot (Mainetti, 2016), abbiamo ancora storie marginali che si intrecciano al disagio politico e al riscatto socio-istituzionale: abbiamo ancora Roma. Ma senza pistole. Qui si preferisce coltivare un sogno che ri-parte dal coltivare la terra, quella sotto casa, con una concreta progettualità. E qui il film, che mette insieme finzione e realtà, attori e non attori, cerca il suo punto di svolta e trova la sua voce autonoma, pur mancando di una forza espressiva memorabile.