TRAMA
Una bambina si trasferisce con la madre in una casa non lontano dalla prestigiosa scuola che dovrà frequentare. Il vicino è un vecchio ed eccentrico aviatore. Attraverso le pagine del diario dell’aviatore e i suoi disegni la bambina scopre come molto tempo prima l’uomo fosse precipitato in un deserto e vi avesse incontrato il Piccolo Principe, un enigmatico ragazzino giunto da un altro pianeta. Le esperienze raccontate creano una forte complicità tra l’aviatore e la bambina che li porterà a vivere una grande avventura.
RECENSIONI
Difficile confrontarsi con un racconto che è diventato un vero e proprio 'caso', non solo editoriale. Per molti, una fede tramandata di generazione in generazione, una sorta di opera guida da cui trarre insegnamenti per la vita. L'entusiasmo trova conferma nei numeri: dalla sua pubblicazione nel 1943 'Il Piccolo Principe' è stato tradotto in 253 lingue e dialetti e stampato in oltre 134 milioni di copie, diventando il libro più venduto al mondo dopo la Bibbia. Il cinema se ne è già occupato con una trasposizione musical fantascientifica di Stanely Donen, invero non memorabile, e per la televisione si ricordano una serie animata giapponese del 1978 in 39 episodi e una francese in computer grafica del 2010. Una volta avuto il via libera da Olivier d'Agay, presidente della Fondazione per la gestione del Patrimonio Saint-Exupéry, i produttori francesi Aton Soumache, Dimitri Rassam e Alexis Vonard hanno scelto come regista Mark Osborne, che in Kung Fu Panda aveva unito due elementi fondamentali della cultura cinese, il kung fu e il panda, uscendone a testa alta non solo negli incassi, ma anche nell'apprezzamento da parte del pubblico cinese. Rispetto per una cultura, quindi, adattata a una platea globale.
Con “Il Piccolo Principe” a Osborne viene richiesto qualcosa di simile, ovviamente non nei contenuti ma nell’approccio. Per assolvere l’arduo compito il regista, coadiuvato dalla sceneggiatura di Irena Brignull e Bob Persichetti, non si limita a una semplice trasposizione, ma crea una storia intorno al libro. Una storia che anziché espandere il testo finisce per contenerlo. C’è una bambina, di fatto la protagonista, vessata da una mamma amorevolmente ottusa che le ha pianificato l’esistenza, e c’è la fuga dalla realtà in un mondo magico, grazie a un vicino di casa anziano e sognatore. Il trait d’union con la fonte letteraria è rappresentato dal fatto che il vecchio è l’aviatore della favola e il legame tra i due porterà alla stesura di un vero e proprio libro che poi è “Il Piccolo Principe” Quello messo in scena è quindi più che altro un omaggio all’opera di Saint-Exupéry che viene così arricchita senza essere snaturata. La sceneggiatura crea infatti un parallelismo tra il piccolo principe e la bambina: entrambi devono imparare a distaccarsi dalle cose terrene e dagli affetti, capire ciò che davvero è importante e non smettere di nutrire la propria parte bambina.
La forma riflette il contenuto. Per la “cornice” si utilizza una computer grafica che crea un mondo ordinato e rigido permeato da tonalità plumbee dove non sembra esserci spazio per alcun guizzo, mentre il “quadro” si irradia di una luce calda, valorizzata da una morbida animazione in stop motion che combina carta e creta dando vita alle illustrazioni originali del libro (dello stesso Saint-Exupéry). Due universi separati dalla tecnica che arrivano a compenetrarsi. Quando infatti la bambina avrà maturato la lezione appresa facendola sua, il piccolo principe apparirà al suo fianco non più in creta ma pixelato. Un progetto quindi ragionato, molto curato e fedele allo spirito della pesante eredità letteraria. Se tutto ciò è apprezzabile, e ha sicuramente un valore, l’impatto del film non ha però la leggerezza delle intenzioni. La voglia di chiarire il più possibile, limitando ogni ambiguità interpretativa, ha reso infatti molti passaggi piuttosto didascalici, con gli approdi morali ripetuti allo sfinimento e contrasti più urlati che lasciati all’intuizione. L’effetto si contamina quindi di una certa zavorra, o ridondanza che dir si voglia, come in tutti i casi in cui si prova a spiegare la poesia nel timore che non venga compresa. Mentre il libro si adatta al lettore, al suo sentire e alla sua sensibilità, perciò anche alla sua indifferenza o alle sue resistenze, il film offre una chiave di lettura abbastanza univoca che appaga la razionalità ma perde per strada l’astrazione, la suggestione, l’inconscio. La poesia, appunto.
Sono francesi gli studi che producono, con 80 milioni di dollari, un’opera d’esportazione, sfruttando talenti di Disney, Pixar e Dreamworks, e affidandone la realizzazione al regista del primo Kung Fu Panda, innamorato del testo di Antoine de Saint-Exupéry: Mark Osborne si affida ad una sceneggiatura che lo propone “a lato” (ha citato Il Ladro di Orchidee), inventando di sana pianta un racconto per trasmettere la fascinazione del libro, anziché trasporlo direttamente. “Un film sul libro e non dal libro”. Il risultato è qualcosa che ha poco di de Saint-Exupéry: sarebbe stato meglio tradirlo ampliandone e reinventandone gli incontri on-the-road nel rispetto del loro spirito, anziché giustapporlo ad un’ulteriore storia che lo adombra. In pillole la sceneggiatura i concetti li contiene ma, nell’economia generale, li perde (soprattutto il tema della morte come accettazione della vita), preferendo puntare sulla poetica del fanciullino da preservare, fino a banalizzarla: il racconto inventato è come equivocasse la frase “L’essenziale è invisibile agli occhi” in “Punta all’essenziale eliminando il superfluo”, secondo logiche di profitto capitalistiche. Peccato perché, a livello prettamente figurativo, le illustrazioni originali, che prendono vita in stop motion con pupazzi di carta vestiti di pezza, sono meravigliose. Ben realizzato ma meno sorprendente il CGI che veicola l’altra storia, coinvolgente ma poco originale, con l’evidente tentativo di sostituire l’aviatore che il piccolo principe “aggiusta” nel libro con una bambina da “aggiustare”, salvandola dalla vita grigia (i colori non mentono).