TRAMA
Daniel Plainview trova giacimenti petroliferi, quelli di New Boston saranno la sua fortuna e la sua soddisfazione.
RECENSIONI
Engine of Ruin
“I'm finished”: ho finito, sono finito, ho fatto tutto quello che avevo da fare. Daniel Plainview non concede che altri si approprino della sua vita e sancisce la fine della sua vicenda mandando a nero lo schermo. Cosa in realtà egli abbia realizzato di aver terminato mentre risponde al maggiordomo, ancora seduto a terra sulla pista da bowling, di fianco alla testa fracassata di Eli Sunday, è un baratro di annichilimento. PT Anderson, a partire dal romanzo di Upton Sinclair – e dalle affascinanti vicende dello scandalo del Teapot Dome [1] - costruisce il ritratto di un uomo che in un passato indefinito ha abdicato alla propria umanità, ai tratti sociali della medesima, per realizzarsi nella totale sociopatia. L'abbondanza di primissimi piani e piani americani che incastrano centralmente, in silenziosa azione, il protagonista basterebbero a fare de Il Petroliere un perfetto esempio di character piece ma ancora una volta il regista, che dedica il film nei titoli di coda a Robert Altman, è interessato a tessere visivamente il rapporto tra il personaggio principale e quelli che lo circondano. A seguito del magistrale prologo praticamente muto ambientato nel 1898 si dispongono altre tranche della storia che Plainview avrà cura di dichiarare chiusa. Segmenti di incontro, prima quello con il silenzio del pozzo minerario, quello con il petrolio quindi con il figlio, la famiglia Sunday, gli emissari della Standard Oil ed il falso fratello ritrovato, per poi procedere all'eliminazione puntuale di ognuno degli ostacoli che si frappongono tra di lui e l'isolamento, la solitudine, la compiutezza del tacito piano che, palesemente, lo vuole sconfitto ma soddisfatto di ciò.
Per brevità basta considerare come gli scontri con Eli Sunday, il giovane predicatore teatrante, scandiscano l'andamento narrativo. I due si fronteggiano su uno spettro di caratterizzazione opposto, Plainview esce, letteralmente, dalla terra nel prologo (spingendo su questo pedale, sono seni le colline su cui si apre il film e chiude la sequenza, ma stiamo ai fatti), ed in essa cerca la soddisfazione nella sua brama di indipendenza dal mondo umano; Eli vaneggia, manipola persone con un potere persuasivo invisibile che ha le radici nello stesso inspiegabile sentimento di odio nutrito dall'oilman, è insondabile quanto il simbolico di cui si fa carico (un'ottima base di truffa). Strutturalmente, a metà di There Will Be Blood c'è lo scontro dei due mondi, il vuoto verbo del profeta della terza rivelazione e la terra di Plainview che trascina il ragazzo nel fango, con esso lo umilia dettando la propria superiorità fisica e di potere. Non c'è scampo e la pietas indotta nella retorica narrativa nei confronti del protagonista se d'un canto è funzionale ad Anderson per rendere ancor più ambiguo il rapporto di prospettiva sull'agire della sua titanica e feroce figura, da un altro è una delle chiavi che permettono di giustificare i presunti salti ed alcuni passaggi impliciti della narrazione. Per una volta il regista non si abbandona agli sproloqui di Magnolia ma costruisce e giustappone blocchi significativi dalla profonda correlazione: l'autocoscienza di Plainview, la consapevolezza del baratro che si sta scavando e che contemporaneamente brama come panacea (per cui allontanato dagli sguardi lui ed il suo dolore smetterebbero di esistere anche per...sé stesso), si sostanziano nella monumentale recitazione di Daniel Day Lewis capace di scolpirsi nel tempo, in quell' inizio Novecento, con una gamma di sfumature prossemiche e mimiche calibrate sulla continua ambiguità (si rifà agli altri "suoi" personaggi prototipi de L'ultimo dei Mohicani e Gangs of New York oltre che, esplicitamente, al John Huston di Chinatown), almeno fino all'excipit in cui tutto, inevitabilmente si è fatto chiaro, su un palcoscenico tutto americano come la pista da bowling in quella magione degna dei Vanderbilt o dei Rockfeller (proprietari della Standard Oil). Nel solco di una tradizione tutt'altro che semplice da Greed a Il Tesoro della Sierra Madre a Citizen Kane, fino all'Aviatore. La versione italiana, come al solito, mutila l'esperienza cancellando il training vocale di Day-Lewis ed appioppando ad Eli una vocina sì flebile come in originale ma non altrettanto stridula e variegata. Plauso finale alla colonna sonora di Johnny Greenwood che riprende il gusto di Anderson maturato in Punch Drunk Love.
[1] in breve concessione di sfruttamento di beni dello stato federali a compagni del petrolio in seguito a regalie, con coinvolgimento del presidente degli USA, del suo staff e di Edward L. Doheny (originario di Fond du Lac come Plainview). Wikipedia in inglese ne da un sunto sufficiente per partire
Apparentemente, disfacendosi di una buona parte del romanzo che lo ha ispirato (OIL! di Upton Sinclair), Anderson accantona le istanze politiche compilate con passione didattica dall'attivista e scrittore americano. Intrecci illeciti tra affari e politica, corruzione, sperimentazioni socialisteggianti: i temi svolti da Sinclair per denunciare lo scandalo dell'industria petrolifera e la vergogna del capitalismo selvaggio del primo novecento cadono assieme alle parti del romanzo tralasciate da un adattamento assai libero [1]. A ben vedere, però, There Will Be Blood compie una vertiginosa scarnificazione, raddensando il discorso politico in dialettica elementare, tesissima e possente: il corpo e lo spirito di Daniel Plainview - fisicissimo, ambizioso, stentoreo, ossessionato, avido, folle - e l'oggettuale Natura, solidissima e grezza. Lungi dallo smarcarsi dall'urgenza politica del testo, Anderson ne fa epica metafisica, tutta interamente impastata di polveri, umori, corpi, catrame e materia. Con rigore filogenetico kubrickiano [2], l'Autore dà forma a un climax evolutivo congenitamente infetto: la pura, spietata energia del pioniere sfida l'asprezza della terra per costruire la sua personale idea di civiltà senza società; piega le forme del territorio e delle relazioni umane; divora uomini e cose; s'insinua nelle liturgie del posto; si fa profezia mortifera e materialistica contro ogni menzogna trascendente. Plainview costruisce con immane sforzo fisico la sua solitaria utopia antisociale e misantropica: il suo protendersi calvinistico verso la Natura è lavoro (non accordo panico, non lotta per la sopravvivenza, non ricerca interiore) - dapprima esperimento caparbio, poi impresa organizzata; la grazia disvelata dal suo successo è nient'altro che la possibilità di vivere senza gli altri e senza altre false profezie se non se stesso [3]. L'individuo nella sua affermazione più radicale intraprende una sanguinosa impresa di sottrazione che prosciuga la madre terra del suo umore nero così come del senso stesso dei legami umani. Dentro questa opposizione fondamentale, s'iscrivono i rapporti del petroliere con l'altro: le finte idee di famiglia (l'orfano rimasto senza padre, il falso fratello) a cui Plainview s'aggrappa per consentire il perpetuarsi del suo mondo ("I'm a family man", annuncia nel suo primo discorso pubblico, enunciando così una faticosa verità) [4]; e la violenta contrapposizione col potere retorico e ultraterreno di Eli Sunday, autentico controtipo negativo del carnalissimo dominio di Plainview su Little Boston [5]. Si tratta, però, in entrambi i casi, di annessioni forzate: il culto totalitario di Daniel Plainview fagocita e si appropria di ogni soggetto esterno al suo mondo, lo sbrana e ne fa scempio. I finti familiari fuggono o soccombono; lo sradicamento del contropotere carismatico e in declino di Eli è il compimento coerente e tuttavia stupefacente dell'opera di Plainview: I’m finished. There will be blood si snoda tutto intorno a questi incontri/scontri (con H.W: i teneri giochi, l'abbandono, il ritorno, la separazione definitiva; con Henry: l'arrivo, la diffidenza, l'accettazione, l'assassinio; con Eli: la negoziazione in casa Sunday; l'inaugurazione del pozzo; lo scontro nel fango; il battesimo; l'apocalittico finale) per dar forma a un vaticinio che va oltre il presagio funesto, essendo invece il necessario e compiuto svolgimento del sogno di Daniel Plainview. Ci sarà il sangue.
(Noterelle di chiusura: se There will be blood è opera principalmente animata da ottime interpretazioni (un Paul Dano tremulo sull’orlo del tracollo epilettico; un Day Lewis incredibile che filtra e coagula un lavoro attoriale impressionante per dar vita ad una delle più possenti interpretazioni della storia del cinema moderno), regia, fotografia e colonna sonora concertano tuttavia con incredibile accordo. La macchina da presa di Anderson, appena un po' più disciplinata del solito, si applica col solito profondo umanesimo a una materia densissima che asciuga del tutto gli accumuli polifonici delle sue due opere di maggior successo, per ridursi alla voce potentissima di un solo uomo e al suo rapporto con lo spazio in cui essa s'afferma. La luce di Elswit e la straordinaria colonna sonora di Jonny Greenwood dialogano con la stessa forza con cui l’anelito del petroliere Plainview aggredisce le forme pietrose del paesaggio).
[1] Il tomo è passato per le mani di chi scrive in modo assai superficiale: ci affidiamo dunque, altrettanto superficialmente, ad alcune sinossi del romanzo ed a un breve saggio apparso sulla Sunday Book Review del New York Times (Anthony Arthur, Blood and Oil, 24 febbraio 2008).
[2] Dallo straordinario incipit pre-verbale all'incongruo, ma necessario (e bellissimo) finale, il "viaggio" di Plainview squaderna la malattia intrinseca al progresso capitalistico, quasi come (con parallelo altrettanto incongruo) una terrosa space odissey mutilata di ogni speranza palingenetica. Là, l’utopia della téchne dall’osso-arma ad Hal 9000; qui, l’aspirazione congenitamente totalitaria dell’industrialismo capitalistico dalla missione solitaria del pioniere alla “profezia unica” del potere.
[3] Nella sceneggiatura finale licenziata da Anderson (e resa pubblica dalla Paramount Vantage), l'urlo demoniaco di Plainview (I'm the Third Revelation) si poneva in relazione diretta (e, probabilmente, un po' didascalica) con una esplicita dichiarazione di Eli, secondo cui la "Terza Rivelazione" cui s'ispirava la sua Chiesa sarebbe stato lui stesso, Eli Sunday.
[4] L’illusoria idea di famiglia sperimentata da Plainview (una famiglia esclusivamente maschile, inscindibilmente legata all’impresa - my partner and son, dice Plainview in quello stesso discorso, presentando al pubblico il piccolo H.W.) è l’unico luogo sicuro, al riparo dal cancro vitale della competition (e difatti l’intenzione di H.W. di cambiare paese e di mettersi in proprio ne fa subito un competitor, ma anche, simultaneamente e inevitabilmente, un estraneo al nucleo ormai decomposto della famiglia Plainview (a bastard in a basket).
[5] La (momentanea) sconfitta inflitta da Eli a Plainview (nella scena da brivido del battesimo) ostenta i simboli del potere sociale del predicatore (in opposizione alla nuda e scabrosa grammatica del petroliere): il sangue metaforico dell’Agnello, la coralità rituale, l’autodafé. In breve, la parola e la liturgia immateriale contro la disarmante trasparenza della prassi del dominio.
Quindici minuti di cinema assoluto, implacabile, perforante: Il petroliere inizia con violente picconate che frantumano lo spettacolo, la sua etichetta e la sua retorica. Un rullo compressore che sbriciola tutto: pietre, muscoli, ossa. Non una parola, non una soluzione ammiccante, non una spiegazione. Musica ronzante come un’ossessione, inquadrature secche come sassate. C’è solo la febbre dell’avidità, una febbre che seppellisce ogni bisogno, ogni fatica, ogni dolore. Avidità. Avidità. Avidità. La macchina cinema si cala nelle forme della bramosia, scava la terra, graffia la pietra, arraffa la ricchezza. E riesce a prendere fiato, a “parlare”, solo una volta che l’ha artigliata. Quindici minuti di ingordigia visiva intrisa di politicità. È un film totalmente politico There Will Be Blood: non è un teorema allegorico o un obliquo atto d’accusa, è un masso scagliato in faccia allo spettatore. Plainview (un Daniel Day-Lewis mostruosamente famelico) è l’America, voi lo sapete. Il piccolo H.W. (Dillon Freasier) è il nativo americano (l’indiano ridotto al silenzio, stordito con l’alcool e segregato nelle riserve), voi lo sapete. L’inoffensivo Henry (Kevin J. O’Connor) è l’immigrato di qualunque razza e nazionalità (“Ho cercato di sopravvivere”, sibila prima di essere soppresso), voi lo sapete. Ely (l’inadeguato, quindi adeguato, Paul Dano) è la religione dei predicatori con l’indice rivolto verso l’alto, voi lo sapete. Daniel Plainview è assetato, allunga la sua cannuccia e succhia tutto quello che c’è da succhiare: non si fermerà finché non avrà rimosso tutti gli ostacoli, finché non avrà eliminato tutti i nemici. Finché non avrà finito. Il petroliere è un film dell’orrore, l’orrore della rapacità, l’orrore dell’America. Di dreeeeeeeeenaggio si tratta.
There will be blood è la sentenza scolpita nel marmo di un film anaffettivo, è il presagio inciso in una lapide fattasi pellicola. Tempo futuro per la cinica trasfigurazione di un passato che è già presente, tempo immobile, dunque, pietrificato. Pietra fredda, poiché Anderson raggela i suoi personaggi sul limite della liberazione grottesca, negandogliela un attimo prima della conquista, contrappone al sovraccarico monco delle figure sottrazioni nello sviluppo, ellissi che impediscono alle caricature di compiersi, alle maschere di svelarsi nell’introspezione. Lo scalpello non raffina, ma sgrezza: Anderson sceglie un compromesso che non consente catarsi, nemmeno nel finale, raffreddato, emotivamente inadeguato, glaciale, quasi astratto: Ho finito, certo, ma il sangue che scorre ora non cesserà mai. Scorrerà. L’etichetta grande film americano riacquista un senso: tombale. Una fossa scavata attorno alle radici della modernità, mandando la morte inloop nella ciclicità implacabile della storia. Un’opera straniante, avvilente, di tracotante perfezione. Pietra, semplicemente.
“Per sempre, per sempre, per sempre”
Li definirei cinema assoluto i 15 minuti che costituiscono l’apertura di There Will Be Blood. Siamo di fronte ad un Mito della reincarnazione, alla rinascita di una figura titanica e rapace, che racchiude nel corpo di Daniel Pleview il solipsimo più esasperato, nel desiderio di conquistare e drenare l’intera materia rappresentata. Siamo in una dimensione archetipica e il richiamo a 2001 Odissea nello spazio, ai limiti dell’ybris, è direttamente funzionale all’idea del mondo e del cinema che Paul Thomas Anderson vuole mostrarci. Non possiamo quindi liquidare il senso di una citazione così importante, circoscrivendola nella banalità dell’amore cinefilo, perché l’operazione attuata ne “Il petroliere” riprende e corrompe, attraverso un’attenta rielaborazione estetica e contenutistica, la parabola dell’uomo kubrickiana. Daniel è l’opposto del tanto sperato Feto Astrale, è una figura nemesiaca che vuole dominare (e distruggere) l’intero cosmo, a cui non sta a cuore l’armonia universale, ma unicamente il desiderio di imporre la propria volontà e individualità. L’abbraccio alla poetica di Kubrick si formalizza fin dalla prima inquadratura. Ci ritroviamo per la seconda volta nell’ “Alba dell’uomo”: la stringa sonora che accompagna il campo lungo dello skyline tra cielo e montagne, ci riporta nel contesto di 2001. Il Monolito però c’è già stato e l’uomo ormai si è pienamente identificato nel (falso?) Mito della ragione e della tecnica. Daniel, immerso nelle viscere terrestri, cerca a colpi di piccone delle pepite d’oro. La riuscita dell’impresa, con tanto di sacrificio corporeo (la rottura della gamba), topos di numerose divinità, assume il significato di una (ri)nascita. Il protagonista, si forma attraverso la terra, che lo plasma e lo porta alla luce con le piene capacità (in questo caso anche economiche) di potersi imporre nel mondo che sta fuori. Il passaggio al petrolio diventa, quindi, il contraltare della situazione precedente: ora Daniel è a tutti gli effetti, un “uomo nuovo” che, in collaborazione con un manipolo di persone, si ciba di quell’alveo che gli ha dato la vita. E’ un percorso materialistico che diventa una necrosi ontologica e storica, nella quale l’elemento rappresentato, carico di una forte aura rituale, assume la forma di una parabola contemporanea. La terra viene devitalizzata dal progresso e strumentalizzata nell’ottica dell’affermazione del sé. Un mondo dominato dalla rapacità del singolo nel quale la collettività si eclissa in un ruolo minore, passivo di fronte al potere dei pochi. Quello di Daniel si può paragonare ad un vero e proprio cannibalismo, che arriva persino a fagocitare il senso di colpa (il piccolo H.W ) di una realtà che nega ogni forma d’ideale.
Occorre soffermarsi sull’impostazione data alla sequenza iniziale per sondare più a fondo la contaminazione kubrickiana sul pensiero di Anderson. Oltre ad un rigore geometrico nella composizione del profilmico, di forte impostazione fotografica, si percepisce quell’inconfondibile atmosfera, che richiama ad una vera e propria catarsi dell’immagine. La composizione visiva si trasforma in un’icona, che racchiude al suo interno una mise en abyme di stratificazioni del senso. La ricerca del Mythos nel cinema di Kubrick, stava infatti nel racchiudere ogni immagine in una valenza universale, aprendone l’intelligibilità verso una miriade di strade possibili. Il percorso d’oltrepassamento del meccanismo filmico (artistico) viene però negato da Anderson che sebbene sembra seguire, l’occhio Kubrickiano se ne discosta in maniera incredibile. Potremo legittimare questa constatazione riferendosi al clima d’attesa dei due film (2001 Odissea nello spazio e Il petroliere). Nel primo questa attesa si materializza nell’irruzione del Monolito, la formalizzazione di un elemento che trascende la ragione e porta al salto verso un oltre. Un qualcosa di eterodiretto che condiziona l’uomo nel suo percorso evolutivo e ne incarna la porta della Legge (cfr racconto Kafka ononimo). Andando più a fondo si può identificare questo elemento con la stessa funzione del Cinema, la discontinuità (Montaggio?) che orchestra la narrazione della Storia. L’attesa ne Il petroliere invece prende le sembianze di una vera e propria catabasi, che procede per sottrazione. Di primo acchito potremmo dire che il Monolito nel film di Anderson non esista; questa però risulterebbe un’affermazione sbrigativa e sinonimo di poca attenzione. Il pozzo petrolifero infatti è il nuovo totem, non più elemento trascendente ma simulacro di quello originale e figlio della tecnica. E’ Daniel che costruisce il proprio Monolito, attraverso un procedimento che rende direttamente proporzionali la conquista con la sottrazione. L’austronauta di 2001 Bowman (uomo-arco) veniva guidato verso un superamento dello spazio e del tempo, attraverso un oltrapassamento della stessa immagine cinematografica, nella “più lunga carrellata della Storia del cinema”, per raggiungere la condizione di nuovo Mito del futuro (il Feto Astrale); Daniel invece imprigiona l’immagine nella sua volontà di potenza, consumandola ed appropriandosene famelicamente. Il drenaggio del petrolio diviene quindi anche un processo di prosciugamento della stessa essenza del cinema. In There will be blood lo spazio e il tempo sono infatti come cristallizzati, pietrificati in una narrazione che, sebbene proceda in maniera lineare, sembra non muoversi affatto. Daniel vuole annullare la realtà, circoscrivere lo schermo unicamente intorno al suo ego. E’ una conquista dell’inquadratura, dello stesso meccanismo cinematografico che relega tutto il resto del mondo nel fuori campo. Una teoria geniale che viene legittimata nel continuo contrasto tra i piani. Il film potremmo infatti considerarlo una progressiva riduzione dal campo lungo al primo piano. E’ un confinare la messa in quadro, possederla, come prepotente esorcizzazione di un mondo che viene sentito ostile e odiato. Le poche aperture dell’Io di Daniel non a caso mostrano una figura piena di rancore, allo stesso tempo tremendamente fragile e spietata. Un personaggio che vive solo attraverso la possibilità di sottrarre a se stesso il mondo. E’ un paradosso incredibile e di profondo spirito tragico. Non è una banale vampirizzazione del reale, ma una tremenda condizione dell’uomo moderno che ha perso la propria capacità di creare, di vivere in armonia con un ciò che lo circonda. Il petroliere è uno degli esempi più crudeli dell’indifferenza, un’indifferenza però che diventa una risposta, la risposta di Daniel al mondo, una vendetta per un contesto che non lo accetta.
Il percorso del protagonista per tutto l’arco del film è seguito, passo dopo passo, da un crescente annichilimento. La sottrazione, infatti, oltre ad annientare il mondo si ripercuote su Daniel, incentivato dalla propria misantropia ad isolarsi dalla realtà. Questa volta il richiamo alla cinematografia di Kubrick investe The Shining, un’assonanza che trova il corrispettivo nella figura di Jack Torrance. Il progressivo annientamento di Daniel, accompagnato da un abbrutimento fisico e morale (la camminata gobba e la piaga dell’alcolismo), sembra rimandare alla follia di Jack Nicholson. Entrambi sono chiusi nel loro labirinto interiore (la casa del petroliere/l’Overlook Hotel) ed entrambi incanalano una furia distruttiva incontrollabile. Il loro destino però prende due strade diverse ma allo stesso tempo affini: Jack Torrance rimane congelato nella propria allucinazione, nell’impossibilità di fuoriuscire dalle sue visioni mentali, costretto a vagare “per sempre, per sempre, per sempre” nel meccanismo labirintico del cinema; Daniel invece si illude della propria volontà di potenza, distrugge la diegesi per imporre solo la sua prospettiva. Parlo di illusione perché l’assassinio di Eli, racchiude nell’inquadratura scelta, un amaro richiamo a 2001 Odissea nello spazio. Non c’è alcun’evoluzione mitica, ma piuttosto una regressione. E’ qui che troviamo infatti lo scacco beffardo di Anderson nei confronti del proprio “eroe”. L’atto di fracassare la testa del nemico con il birillo richiama esplicitamente il primo omicidio (razionale) della scimmia ad opera di un suo simile (in quel caso un semplice osso). Il Mito del superuomo viene negato, perché Daniel rimane come Jack Torrance incatenato nella condizione di un uomo qualunque, fotocopia del proprio archetipo (l’ominide preistorico), privo di alcuna strada per affermare il proprio Io. “Ho finito” sono le ultime parole ironiche emesse dal folle petroliere che sanciscono la conclusione del film. Ho finito di distruggere il cinema, di distruggere il mondo ma, con il mio atto non ho fatto altro che portare avanti il cliché dell’eterno ritorno. Credo che non sarebbe così straniante vedere Daniel e Jack congelati nella stessa fotografia, sorridenti e narcisi di un’individualità fine a se stessa.
«Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!»
(Esodo, 4, 10)
«In principio Dio creò il cielo e la terra».
L'origine del mondo e dell’uomo, come riporta la Genesi, avviene dunque, “in principio”, dalla terra. Essa produce «esseri viventi secondo la loro specie»: l’uomo di polvere secondo la specie della polvere. Egli abitò il giardino dell’Eden, piantato nella terra, senza conoscere il bene e il male. Il peccato originario lo condannò poi a un’esistenza da uomo di sangue. Caino e Abele sono il frutto dell’uomo del sangue, “lavoratore del suolo” il primo, “pastore di greggi” il secondo - ossia Daniel Plainview e Eli Sunday, il petroliere e il predicatore, “fratelli” e figli della stessa terra. There will be blood - ovvero “ci sarà [spargimento di] sangue” -, titolo originale dell’ultimo film di Paul Thomas Anderson, rimanda proprio alla continuità, legittimata dalla continuità della terra (la stessa imbevuta del sangue di Abele), della discendenza del popolo di Dio: continuità di sangue e continuità del sangue, poiché nonostante il succedersi nel tempo di nomi, volti e azioni, lo scenario sembra conformarsi sempre al sangue. La terza Rivelazione – quella del sangue - di cui parla il film, rappresentata da Anderson sulla pelle del personaggio del petroliere, è prima di tutto un rivelazione fisica - rivelata in quanto vista - e definita nei termini di una nuova Alleanza tra oggetto rivelato e oggetto della Rivelazione. Partiamo dall’origine: la terra. Il film di Anderson comincia “lì”, con una dissolvenza in apertura da cui prende forma un improvviso campo lunghissimo occupato dalla montagna, un’immagine accompagnata dalle corde quasi orrorifiche del commento sonoro, sorta di grido atavico che prelude al destino di tutta l’umanità. È questa la scena di un delitto fissato nel tempo, di cui la terra continua ad essere testimone; e Daniel Plainview, l’uomo eletto, altro non poteva che essere presentato subito immerso nella terra. Egli è l’uomo della Rivelazione e il diretto discendente di/del sangue di Caino e Abele. La storia privata del petroliere americano (la fuga dalla casa paterna dovuta all’impossibilità “a stare lì”), per quanto oscura, lo ricollega all’infame antenato. Come Caino, marchiato dal Signore con un “segno” affinché nessun uomo mai lo colpisse e condannato ad essere “ramingo e fuggiasco” sulla terra, Daniel ha disperso le proprie origini e si è privato di una prole; in questo risiede la sua condizione di esiliato: un esilio dal sangue biologico che lo rende forse predisposto/predestinato al sangue rivelato.
Ma l’anno da cui inizia a dipanarsi la storia del Petroliere è il 1898, e nonostante i ritrovati opposti schieramenti – Daniel e la sua impresa da una parte, Eli e la sua parrocchia dall’altra -, i tempi sono cambiati. Il paesaggio de Il petroliere ha da poco smesso i miti del vecchio West, e i piccoli retaggi lasciati sul campo – filmico - hanno perduto ormai quella lirica moralità istintivamente visiva propria del genere Western. Certo lo sguardo di Anderson per la terra d’America è a tratti sentimentale, in certe panoramiche e carrellate che sembrano descrivere quell’“atteggiamento femminile” che Henry James attribuiva alla natura americana: «Non il fare odierno e corrente ma il vecchio, ideale e classico: quell’aria di accoglierti ovunque, d’aspettarti ovunque, eppure sempre senza orgoglio cosciente, e solo in dolce sottomissione a ciò che di lei si sarebbe voluto fare».[1] È quindi possibile che tutta l’attrazione che Daniel non riesce a vedere negli uomini si riversi sulla terra; ma la natura de Il Petroliere è soprattutto schiacciata sulla terra – e sull’immagine: pozzi, travi, binari, tubazioni, ciò che attraversa la terra la rigetta dentro i limiti dell’immagine -, ridotta a una enorme conca pronta ad accogliere petrolio e sangue. Di nuovo la terra, e il legame privilegiato di Daniel con essa; un legame che più di una volta arriva a confondere i tratti dell’uno con la materia dell’altra, creando uno sconfinamento visivo. Su questa linea, Eli il predicatore si posiziona in modo diametralmente opposto. Entrambi sono uomini del fare, figli del pragmatismo americano, ma con diverse linee d’azione risultate da diverse capacità: Daniel per arrivare “alla terra” non si fa scrupoli nel servirsi del “bel faccino” di H.W.; nonostante il suo essere spregiudicatamente amorale, presenta al suo “pubblico” un’immagine concreta e ben ancorata a valori riconoscibili e naturali (il culto della famiglia e della terra come bene vitale), funzionale alla sua retorica. Il suo è un tocco produttivo, perciò la sua mano si impone dettaglio dopo dettaglio nel modo di un segno distintivo, rivelato (nell’inquadratura) e rivelatore (della natura eletta del petroliere, come il marchio del Signore che ricadde su colui che alzò la mano contro il fratello Abele). La mimica terroristica di cui si serve Eli è invece confinata nella polvere sospesa della sua chiesa, e le sue mani, sempre congiunte – quando non in cerca del contatto con l’altro – sono portatrici di un tocco sterile. La sua Rivelazione non può essere naturalmente duratura - come la terra - ma effimera, ovvero uno spettacolo avvolto su se stesso: la superstizione eretica infine scacciata dall’Eletto.
Da cosa dipende allora il successo di Daniel Plainview? Dall’oggetto accolto – ricordiamolo - in quanto visto. La sequenza dello scoppio del pozzo ritrae il rito iniziatico attraverso il quale Daniel accetta la Rivelazione: davanti al fuoco, il petrolio sul suo volto si trasmuta in sangue. Daniel è l’uomo Eletto, e a lui il Signore ha comandato per mezzo del fuoco - «Il Signore vi parlò dal fuoco; voi udivate il suono delle parole ma non vedevate alcuna figura; vi era soltanto una voce. Egli vi annunciò la sua alleanza». Questa Alleanza detta a gran voce – il martellante suono della trivella – nasce dal sangue e ritorna al sangue. Poiché se «le cose occulte appartengono al Signore nostro Dio, ma le cose rivelate sono per noi e per i nostri figli, sempre, perché pratichiamo tutte le parole di questa legge» (Deuteronomio, 29,28), ciò che spetta all’uomo – in quanto cosa rivelata - è ancora e sempre il sangue. L’Eletto è stato leale portando a compimento il piano comandatogli dal Signore. Non importa il sangue versato né il sacrificio pagato, conta solo la parola “Fine” perché essa, in quanto prova di fedeltà, aprirà la via della sua salvezza.
[1] Henry James, La scena americana
Ispirato ad un vecchio romanzo di Upton Sinclair (“Oil!”, 1920), che comunque Anderson segue pochissimo, l’opera contiene una grandissima prova di Daniel Day-Lewis (si fa notare anche il giovane Paul Dano in due ruoli) ed ha un meraviglioso soundtrack straniato, quasi cacofonico, ad opera del chitarrista dei Radiohead Johnny Greenwood, capace di restituire quello che, più che un western, è “un film dell’orrore” (Anderson). Pur abbandonando il suo cinema corale/altmaniano, Anderson continua a tematizzare il problematico rapporto padri/figli (Magnolia) e a raccontare il mondo dell’industria (il porno di Boogie Nights), con l’ambizione, stavolta, di un affresco storico e politico, con morale alla Il Tesoro della Sierra Madre (graficamente citato dalla sequenza d’apertura) e alla Greed di von Stroheim (gli anni in cui è ambientato sono volutamente gli stessi, ma le location sono quelle de Il Gigante). Purtroppo è la sua opera meno riuscita, in cui conferma le sue lacune più grandi, fra simbolismi poco limpidi e gratuite esplosioni di violenza (nel senso che non hanno legami con il r(t)esto), con l’aggravante di un protagonista senza profilo psicologico esauriente (cosa non da poco, dato che è davanti alla macchina da presa per quasi tre ore): nel momento in cui, cioè, Anderson abbandona la frantumazione drammaturgica o la commedia surreale delle opere precedenti per dedicarsi, come qui, ad una drammaturgia più lineare, compatta e minimalista, concentrata sul personaggio e gli eventi che lo riguardano, perde l’evocazione di senso indotta dai cambi improvvisi, di registro o di scena, delle sue ellissi e (di)mostra tutti i propri limiti di narratore inconcludente. Del resto lo ammette lui stesso: “Faccio fatica a essere disciplinato, economico. La tentazione di staccare, di essere ellittico, specie se sei di fronte a un passaggio difficile, è sempre forte”. Se solo fosse stato meno dispersivo e si fosse concentrato sullo scontro fra le due anime americane, capitalismo ed evangelismo, nelle persone di Lewis (l’Achab di Moby Dick, secondo Anderson) e Dano (che grande Figlio di Giuda!), ne sarebbe scaturita davvero quell’opera memorabile che in tanti hanno visto.