TRAMA
Germania. Qualche anno prima della Prima Guerra Mondiale. In un villaggio accadono sevizie, attentati, omicidi. Chi è il colpevole?
RECENSIONI
Da sempre, nel cinema di Haneke, il confronto generazionale è didascalicamente territorio di scontro tra l’artificiosa e imbellettata apparenza del nucleo sociale e i suoi moti più reconditi, i frutti devianti, degeneri; il male, implicito e dissimulato nei rituali della comunità, trova concretezza dissestante nel parto: la prole esplicita il lato mostruoso del contesto sociale, si fa manifesto di contraddizioni, rimossi (anche storici, vedi Caché), tendenze e perversioni, incrinando il falso quieto vivere dei padri. I figli non sono che sintomi. Difformità evidenti. Così in Das Weisse Band - Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes – Haneke fotografa la malattia di un villaggio protestante tedesco, negli anni precedenti alla Prima Guerra Mondiale: la gestione e l’abuso del potere, il soffocamento imposto dalla disciplina, l’annichilimento delle pulsioni, la costruzione rituale della facciata pubblica festiva di fronte alla violenza dominante l’ambito familiare/feriale. Famiglia e scuola sono luoghi di educazione coatta alle logiche del teatrino sociale: le aberrazioni, i rigurgiti irrazionali pregni d’odio pregiudiziale nei confronti del diverso, i nefasti segni di vendetta verso le costrizioni sono la faccia sporca della medaglia, il contrappasso proprio, naturale. Haneke frammenta nella coralità del racconto la banalità del male, riassumendola in segmenti programmatici (come in 71 frammenti di una cronologia del caso e, soprattutto, nel centrale Code inconnu ), che, per usuale amor di paradosso, non si fanno mai semplicistico dato sociologico, analisi chiusa, netta, limpida. Ancora una volta è nell’incertezza interpretativa a cui approda l’algido teorema che si colloca il fulcro dell’opera di Haneke ¹ : una serie di omicidi, depravazioni, sevizie; una pseudo-detection che non conosce appagamento; la netta sensazione di conoscere i colpevoli; la nebbia diffusa, ad offuscare: Das Weisse Band è un film sul non sapere/volere/potere vedere. Come in Caché, la semplice evidenza delle cause degli eventi si disperde, si aggroviglia intorno alla menzogna, alla paranoia, alla negazione artificiosa della propria malattia: lì metonimia di tutto questo era la scena finale del film, un piano-sequenza fisso, nel cui popolato campo lungo si confondeva l’incontro tra i figli di Georges e di Majid, logici responsabili degli eventi, non riconosciuti come tali per la (in)conscia necessità genitoriale di trovare altre vie, altri motivi, altri perché al proprio scacco, amorevolmente coltivato.
Qui, di nuovo, la società difetta di capacità autoanalitica, incapace di diagnosticare la propria sconfitta, di riconoscere i figli come guasti, incarnazioni devastanti delle proprie corruzioni. Nel campo lungo finale ² non c'è nulla da scoprire: ognuno di quei personaggi è colpevole; i figli (a rigor di logica) dei reati, i padri (anche) di cecità. Lo stesso narratore, che nella diegesi è indotto a forza a rinnegare la via per la verità, esordisce nascondendosi dietro la labilità del ricordo: di professione maestro e formatore, si nega a qualsiasi responsabilità, negando alle cause l'evidenza degli effetti futuri. Il tacere ciò a cui la generazione dei figli darà corpo mortifero (le abiezioni del nazismo) rigetta l'etichetta di 'opera a tesi', innalza il particolare all'universale (ammorbidendo il primo nel secondo), connota la personalità dello storyteller di una complice, pavida, umiliante omertà. Meravigliosamente ambigua, la mdp di Haneke lavora di elegante sottrazione e, sottraendo, nega allo spettatore snodi cruciali per giungere alla verità. Il rigore dello sguardo convive con la sua inadeguatezza. La patina della programmaticità si stratifica sino a sfaldarsi: il cinema di Haneke si fonda sulla fertilità disorientante della contraddizione, la complessità rende opaca la realtà, la semplicità la annienta nella caricatura. Non c'è catarsi, in questo anaffettivo e monco affresco privo di fortissimo, perché la storia si ripete, ciclicamente, senza risoluzione. Il ghiaccio dello sguardo si sposa all'inelluttabilità della rassegnazione. La Storia - deprivata dall'evidenza di cause ed effetti, i contorni sfumati nel vago - non ha insegnato nulla.
Il nastro bianco di Michael Haneke è di una bellezza accecante. Letteralmente. Il bianco e nero tagliente e atmosferico della superba fotografia di Christian Berger è l’espressione più diretta di un segno filmico di rigorosa nettezza, di una messinscena sontuosamente austera (tra Bergman e Dreyer ma profondamente “hanekiana” nella sostanza) che abbaglia lo sguardo ma che nulla nasconde. L’incipit è una dichiarazione d’intenti (nonché la soluzione della detection, probabilmente, fornita da subito): campo lungo in pieno giorno, una radura soleggiata, un uomo al galoppo, un cavallo che cade trascinando rovinosamente con sé il cavaliere. C’era un filo teso tra due alberi, invisibile a uno sguardo distante e disattento, ma c’era. E c’è un gruppo di bambini che con insolita compattezza e algida curiosità si reca sul luogo dell’incidente (dal quale sparisce l’arma del crimine). La voce del narratore, ormai vecchio, ammanta tutto di dubbio, adducendo come scusa l’imprecisione del ricordo, la polvere degli anni. Ma noi vediamo, loro hanno visto. In questa cronaca di atrocità private e di piccoli e meno piccoli crimini pubblici in un villaggio della Germania del Nord alla vigilia della Grande Guerra, Haneke traccia con implacabile precisione le dinamiche socioeconomiche e culturali di un microcosmo: la rigidità pericolante della struttura sociale (un’aristocrazia impotente e decadente, una piccola e media borghesia chiuse ed aggressive, il mondo contadino soggiogato e morente con qualche raro sprazzo di ribellione), l’ideologia protestante tesa al raggiungimento di un’equivoca purezza (ricerca ossessiva e annichilente fino al sadomasochismo), un sistema pedagogico coercitivo e autoritaristico (il mondo dell’infanzia che riproduce in una sorta di gioco perverso i meccanismi di sopraffazione del mondo adulto a danno dei deboli e dei diversi). Le ellissi, i fuoricampo, le dissolvenze in nero non sottraggono nulla, punteggiature di un discorso crudelmente lineare che però non si vuole né ascoltare né vedere. Prodromi del nazismo alle porte, certo, ma anche radici di un male senza confini storici, di un tempo dei lupi sempre presente.
Haneke, regista spesso accusato di sprezzante glacialità teoremica e di insensibile programmaticità (e per questo odiato), opta stavolta, non rinunciando al suo cinema ferocemente indagatore, per un respiro romanzesco, quasi classico. E sta qui, credo, lo scarto di valore: Il nastro bianco è difatti il film più umanista del regista austriaco. La composizione delle inquadrature raggiunge momenti di inatteso lirismo (il sentiero innevato in un giorno invernale di sole, il ballo campestre, la passeggiata in calesse, il funerale in campo lungo del contadino suicida); lo sguardo che si posa su questo maligno paesaggio con figure a volte ricalibra il distacco nella pietà (i colloqui tra il pastore e il figlio minore, la conversazione sulla morte tra i figli del medico, la veglia funebre della moglie del contadino); per la prima volta nel cinema di Haneke si assiste a qualcosa che si avvicina alla “tenerezza” (l’idillio tra il maestro e la bambinaia, oasi d’ingenuo e innocente romanticismo). È un umanesimo però che non abdica a un ineluttabile pessimismo. Lo scacco della missione educatrice del maestro, detective suo malgrado, si traduce in una voce narrante stanca, rassegnata, un po’ vigliacca. L’uomo alla fine abbandona il villaggio dei dannati e si ritira dall’attività d’ insegnante per inserirsi nel mondo del commercio: ad aver vinto è la peggiore delle cecità, l’ignoranza del fattore umano, il disconoscimento del suo valore.