Recensione, Western

IL MUCCHIO SELVAGGIO

Titolo OriginaleThe Wild Bunch
NazioneU.S.A.
Anno Produzione1969
Genere
Durata134'
Fotografia

TRAMA

Dopo una sanguinosa rapina un gruppo di banditi tenta, in accordo con lo pseudo generale Mapeche, di depredare un carico d’armi. Alla fine una carneficina metterà la parola fine alla storia e ad un genere.

RECENSIONI

3643, questo è il numero delle inquadrature di quello che all'unanimità è considerato l'ultimo western classico o, in alternativa, il primo western moderno. La prima di esse: una atroce lotta di scorpioni aizzati da sadici ("perversi polimmorfi") bambini. Dal 1969, anno del film, il genere, perduta l'aura del mito e della leggenda, precipita nella Storia, nella realtà, quella sporca, quella senza eroi, quella imbevuta di sangue e popolata di cadaveri. Già il grande John Ford, il suo massimo cantore assieme a Hawks e Anthony Mann, aveva vaticinato la rivoluzione/distruzione peckimpeana e nel 1962, con "L'uomo che ucciderà Liberty Valance", realizzò l'ultimo capolavoro pienamente classico, intriso di tristezza, conscio di una prossima fine ma ancora fiero di stare dalla parte della leggenda ("Qui siamo nel West, dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda"). Un personaggio dice : "Tutti sognano di tornare bambini, anche i peggiori fra noi. Forse i peggiori lo sognano di più."  Il genere ha perduto la propria fanciullezza ed è entrato direttamente nella triste vecchiaia. Peckinpah celebra un funerale, quello dei miti della frontiera conducendoci nel regno dei morti. I cadaveri non sono mai stati così tanti, la morte (e non la violenza!) non è mai stata così "coreograficamente" celebrata. L'uomo così com'è per la prima volta fa il suo ingresso nello stilizzato mondo dei saloon e degli speroni nudi.

Le conseguenze in questi 134 minuti di fuoco e di sangue. Peckinpah combina ralenti e immagini subliminali; rompe, o meglio, interrompe la continuità narrativa e del punto di vista (quest'ultimo varia in continuazione); elimina visivamente causa ed effetto e, soprattutto nella strepitosa  scena conclusiva, la violenza giunge ad un grado di saturazione tale da rivelare il suo senso più profondo ed inquietante. Il pessimismo del regista é assoluto: la violenza è "le propre de l'homme" (e non "le rire"). Solo l'amicizia virile sembra parzialmente riscattare questi spettri di eroi mai esistiti uomini amorali. "L'atto politico che i protagonisti compiono nel campo messicano trova le sue ragioni nell'amicizia per il compagno barbaramente ucciso (magari alla luce di un passato che deve essere riscattato), non certo in un serio esame dei valori politici dell'atto stesso. [...] I personaggi di Peckinpah sono una continua tensione verso la violenza, ogni loro movimento, per quanto normale, quotidiano, sereno, pacifico, riporta al formidabile potenziale di distruzione di cui essi sono capaci nei confronti degli altri." (Franco La Polla). Di fronte all'annegamento dell'epopea nel lago di sangue della modernità, accettano, ultimo segno/sogno di cinema "sublimante", di andare verso una morte ("why not?") che è la loro, che è quella di un genere, che è quella di un mondo che non è mai esistito, di un cinema che lo rappresentava splendidamente. Poi, sarà solo elegia (Eastwood, Penn, Pollack...).

Il western finale, maledetto, rito funebre di un’epoca e del Mito (Sam Peckinpah ha dichiarato che era la sua risposta a I Professionisti  di Richard Brooks), di un certo tipo di perdenti che, al di là della Legge, crede nell’Onore e nell’Amicizia. “È l’agonia dell’America” (Paul Schrader), un’allegoria, anche, della guerra del Vietnam. Finale nel finale: la pellicola resta immortale per la sua chiusura, cinque minuti, dodici giorni di riprese per 356 inquadrature, con profluvio di pallottole e apoteosi del ralenti, poi imitatissima in ogni dove. L’epica al suo zenit, montaggio di Lou Lombardo rivoluzionario (successione veloce, per la stessa scena, di riprese con differenti angolazioni e velocità). Ma tutta l’opera, barocca, nichilista e iperrealista, è volta alla messinscena dell’assurdità della violenza e delle motivazioni ad agire di ogni essere umano: nel racconto che Peckinpah trae da un soggetto di Walon Green e Roy Sickner (fondatore del sindacato delle controfigure di Hollywood), le numerose fazioni in campo creano un tutti-contro-tutti che ha dell’amaramente paradossale e la violenza, all’epoca inusitata, serve il credo che, per assaporarne la follia, vada presa in faccia (a questo serve il montaggio parallelo fra scene brutali ed esodo degli abitanti del villaggio, vittime innocenti). Autore (perché) ambiguo, Peckinpah prima ne mette in scena le componenti attrattive, poi ne mostra il deleterio spirito di autodistruzione nel segno, anche, del senso di colpa e della necessaria sconfitta del desueto. Circolarono più versioni, quella europea da 145’ e due per il mercato statunitense, da 143’ e 135’ (ridotta per permettere più proiezioni al cinema): nel 1995 è uscito un ‘director’s cut’ con 10’ aggiuntivi. Il “mucchio selvaggio” era il nome della banda di Butch Cassidy.