
TRAMA
Da una graphic novel di Robert Venditti e Brett Weldele. Futuro, il 98% della popolazione mondiale “vive” per interposto replicante, bello, pettinato, ben vestito, in perfetta forma. Ma non è tutto rose e fiori.
RECENSIONI
Che l’assai bello Moon abbia in qualche modo segnato il ritorno della fantascienza cosiddetta adulta? Surrogates (da noi Il mondo dei replicanti. No, non faccio commenti.) suona come una piccola, brutta conferma: confezione e protagonista da cinema di intrattenimento puro ma, signori, v’è un messaggio serio, adulto da cogliere. Come ai vecchi tempi tipo Body Snatchers, o in Blade Runner o nella Matrix Trilogy. Ma peggio. Perché nel film di Mostow non c’è un sottotesto che nobilita un testo in qualche modo godibile in sé, c’è piuttosto un’accozzaglia di “cose” nient’affatto godibile. Un futuro prossimo disumanizzato, un eroe sofferto e sofferente, una storia d’amore, una critica sociale, un finale pieno di speranza, un bel po’ d’azione girata male e distribuita peggio e poco rispetto per lo spettatore, che è costretto a sentirsi ripetere la/le lezioncina/e un sacco di volte. Perché, ok, abbiamo paura della vita vera e ci stiamo disumanizzando e la 2nd life virtuale e l’apparire sull’essere e la crisi dei rapporti interpersonali e il fascino dell’imperfezione umana versus un surrogato di perfezione plastica, ma insomma, non me lo ribadire ogni cinque minuti ché alla fine mi offendo. Tutto è all’insegna del pleonasmo, della banalità e della semplificazione: i surrogati levigati, lucidi e tonici, gli umani spettinati, sudati e bolsi. Willis condannato alla tumefazione facciale, stanco di se stesso, che a intervalli regolari rimpiange la moglie in carne ed ossa. Sequenze inaccettabili, con dilemmi morali ridicoli – hai poco tempo prima dell’apocalisse, se pigi quel bottone salvi gli uomini, se pigi l’altro salvi anche i robot! - ripetuto fino alla nausea, in una frustrata e frustrante ricerca di diversi livelli di suspense. Pietà. A questo dobbiamo aggiungere una regia inesistente che annoia nei momenti di frenesia ma annienta nelle fasi “meditabonde”, e una sceneggiatura che: 1) si annoda nell’esposizione di un intreccio reso inutilmente complicato 2) pecca di una leggerezza disarmante quando dovrebbe salvare almeno le forme di un minimo di coerenza e credibilità. E’ plausibile che tra poche decine di anni (la graphic novel parla del 2054) il 98% della popolazione mondiale potrà permettersi una sofisticatissima e presumiamo costosissima copia robotica? E perché, se i numeri sono questi, l’annientamento di tutti i surrogati e dei loro corrispondenti umani causerebbe solo – si dice nel film – “milioni di morti”? Il 98% di 7 miliardi non è 6 miliardi e 860 milioni? (senza contare che nel 2050 saremo già 9 miliardi o giù di lì e, insomma, anche considerando gli scollegati al momento del fattaccio, qualche milione di vittime è una proiezione un po' troppo ottimistica). Ed è plausibile che a pochi minuti dall’ecatombe replicante planetaria i telegiornali affermino già con certezza che le vittime umane sono zero? (e che le vittime di un tale evento siano effettivamente zero? – evidente licenza da produzione Disney, si sa, la rassicurante voce over è “per noi”, non per il mondo diegetico -). Ma lasciamo pure perdere. Può darsi che il film abbia l’alibi dell’iperbole e che le nostre siano domande/eccezioni da nerd, tipo “uomo dei fumetti” simpsoniano. Tanto, la conferma che Surrogates sia quello che è arriva comunque, sui titoli di coda, quando parte I Will Not Bow dei Breaking Benjamin, un pezzo nu (?) metal inascoltabile a qualunque livello, (in)degno epilogo di un qualcosa che se lo merita, un epilogo così.

L’albo illustrato (in 5 parti, del 2005, ambientato nel 2054) di Robert Venditti (testi) e Brett Weldele (grafica) in salsa Matrix è piegato (e modificato, vedi il lieto fine) alla poetica da B-movie, d’azione spedita, spicciola, semplice e limpida (anche nella fotografia: le tavole di Weldele, invece, sono cupe, claustrofobiche) alla Jonathan Mostow, che si conferma solido artigiano senza fastidiosi vezzi e senza particolari guizzi. Stessa cosa dicasi per la coppia di sceneggiatori Ferris e Brancato, con cui lavora da tempo, da quando era produttore esecutivo del loro The Game (regia: David Fincher). Il futuro immaginato dai due fumettisti canzona, anche allarmato, le traiettorie di un’umanità sempre più spaventata dalla vita vera, votata alla realtà virtuale e alla chirurgia estetica. Lo script indovina una manciata di gag (compresi gli spot alla Robocop) sulle conseguenze di un pianeta fatto di avatar ambulanti, ma la vera anima dell’opera risiede non tanto nella satira o nella fantascienza del meraviglioso (gli effetti speciali si limitano a dare superpoteri ai surrogati in corsa e a rendere “manichini” gli esseri umani che li interpretano), quanto nel poliziesco d’inseguimento e d’indagine, con colpi di scena validi, onesto e incalzante, con la morale sulla necessità di recuperare la propria umanità anche attraverso il corpo e l’accettazione della finitezza.
