Commedia, Fantasy, Sala

IL MISTERO DELLA CASA DEL TEMPO

Titolo OriginaleThe House with a Clock in Its Walls
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2018
Durata105'
Sceneggiatura
Trattodall'omonimo romanzo di John Bellairs
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Un orfano viene adottato dallo zio stregone. Vincendo i suoi demoni interiori cercherà di salvare il mondo dall’ennesima Apocalisse anticipata.

RECENSIONI

Fino a qualche mese fa, un genitore che avesse portato i suoi pargoli a vedere l’ultimo film dell’Eli Roth di Hostel, Cabin Fever e Green Inferno, sarebbe probabilmente incorso in qualche denuncia ai servizi sociali; oggi invece la (famigerata? ingobrante?) firma di questi in calce a un film dal chiaro target infantile tradisce l’ambizione di indovinare quell’aurea proporzione tra brividi preadolescenziali e nostalgica cinefilia di genere, in grado di mettere d’accordo ogni categoria anagrafica e determinare già da sola il successo di tante recenti Spielberghiane. Effettivamente quest’ultima prova – sfoggiante un ET in bicicletta tra le title card – si inserisce perfettamente nel coerentissimo percorso del regista alle radici della derivazione e della secondarietà, tutto all’insegna della regressione: un programma del resto già chiaro nel Cabin Fever d’esordio, che faceva della metatestualità la sua ragione d’essere affermando però un paradossale ritorno al testo (invito a leggere le sempre preziose analisi di Gianluca Pelleschi a proposito della sua filmografia). Così, dopo le ludiche e lucide esplorazioni del cinema di genere in quanto tale, Roth restringe la sua vis derivativa e parodica a più classiche e circoscritte operazioni di remake (The Green Inferno, Knock knock, Death wish), per giungere infine al grado zero della secondarietà cinematografica, l’adattamento di un classico della letteratura. Fin qui tutto molto lodevole, non fosse che, parallelamente alla progressiva limitazione della portata del gioco metatestuale, si sia impoverito il gioco stesso, costretto spesso a ricadere nello sberleffo autoironico teatralmente ridicolo (e a tratti pecoreccio) per ribadire la sua (onni)presenza, che non di rado rischia di essere l’unico fattore nobilitante e portatore di significato in produzioni che (altrimenti?) falliscono su tutta la linea.

Il mistero della casa del tempo purtroppo segue pedissequamente le esperienze precedenti anche in questi difetti e tradisce davvero l’ambizione di cui sopra, disattendendola: il piano primario è confuso, diseguale, artefatto, fuori sincrono, dispersivo (complice il suo eccessivo stemperarsi con gag di tenore generalmente piuttosto basso – con scatologia e slapstick in prima linea a tentare di strappare qualche sorriso), mentre quello secondario lascia intravedere un potenzialmente fertile tentativo di accumulo antologico e costante edulcorazione e rivisitazione PG-rated di immaginari cari al regista (per fare un esempio banale ma immediato: l’immancabile cranio fracassato appartiene a un automa e non versa nemmeno una goccia di materia grigia o rossa), ma finisce col non spingersi oltre a un latente citazionismo non stento a credere sottile, maniacale ed enciclopedico (senza la pedanteria del parimenti citazionista apprendista stregone), però davvero povero di significato e fuori tempo massimo (per quanto l’apocalisse sia indirettamente ordita nientemeno che dal demone Azazel, time is not on your side, Eli!), ulteriormente compromesso da una regia colpevolmente anodina. Così, se la morale predigerita ma tutto sommato ben servita da un intreccio che si sforza di affrontare temi delicati (e però decisamente risaputi, con la grave mancanza anche lì di qualsiasi prospettiva altra e originale) afferma che strano è bello e che solo l’individuazione di un proprio stile indipendente da influenze altrui – soprattutto familiari – permette di conseguire grandi risultati, è tuttavia proprio il regista il primo a ricadere nella fallimentare rivitalizzazione necromantica di demoni genitori spielberghiani e dantiani, con l’intenzione di riportare indietro le lancette alla alfa della Amblin e rimanendo però schiacciato da una parte dalla propria estraneità (Roth è più figlio di Tarantino e Lynch ed è infinitamente più a suo agio nel dirigere un’Edwige Fenech che un plotone di bambini, le cui scene rasentano l’insostenibile – non che il protagonista da solo o tra gli adulti sia molto più digeribile) e dall’altra dalla sua incapacità di trarre infine il dado (da 20) e recidere – come il piccolo eroe del suo film – il cordone ombelicale che lo soffoca e ne appiattisce ogni verve (è una proiezione della madre ad innescare l’apocalisse ad orologeria – sarà stata la proiezione di qualche Gremlins o Ritorno al futuro a spingere Roth a cimentarsi con questo progetto?)

La strana coppia Black/Blanchett cavalca con la sua studiata improbabilità la scompostezza di tutto l’impianto e ne tiene saldamente le redini con performance adeguate quanto dimenticabili (alcuni momenti sono però godibili, per noi coronati da una Cate Berserk armata di ombrello laser e feroce sterminatrice di zucche zombie), riuscendo a fine giornata a portare a casa e a un box office con un discreto numero di zeri il film, ma la vera chicca è Kyle MacLachlan, villain duplice che, alle prese con rituali occulti, resurrezioni e vagabondaggi tra le pieghe del tempo (drappeggiate di rosso), strizza vistosamente l’occhio al suo alias lynchiano più conosciuto. La colonna musica è, a conti fatti, il piano – squisitamente secondario – dove si realizza meglio il divertito omaggio al genere, con tutti i Wurlitzer, i carillon, i theremin, le campane e le voci bianche del caso, senza con ciò compromettere gli snodi e i climax e dimostrando una coesione e una direzionalità che avrebbero sicuramente giovato al piano drammaturgico. Forse anche il reparto VFX manipola maldestramente qualche orologio e si ritrova improvvisamente a dover lavorare con processori dei primi anni Duemila, vista la pochezza degli effetti, per fortuna riscattati dai piacevoli titoli di coda, che recuperano lo stile delle illustrazioni originali di Edward Gorey, quasi a dichiarare la sostanziale superfluità (del salvataggio) dell’omega derivativa rothiana e a invocare il ritorno alla alfa del testo primario. Vedremo a quale demone Roth si appellerà la prossima volta, per riuscire a regredire ancora.