TRAMA
Gela, Termini Imerese, Melfi, Roma, Prato, Venezia: la realtà del lavoro in questi luoghi osservata attraverso il confronto con L’Italia non è un paese povero, documentario commissionato nel 1959 a Joris Ivens dal presidente dell’ENI Enrico Mattei. Un’occasione per riflettere sulle condizioni socioeconomiche italiane quarantacinque anni dopo.
RECENSIONI
Testo teneramente offensivo che scatena un’infinità di considerazioni e riflessioni, Il mio paese è un documentario pensosamente affascinante. Schivando i tracciati del semplicismo e della linearità, il “viaggio documentato dal cinema” di Vicari sceglie la modalità dell’aderenza alla materia rappresentata e dell’erranza dello sguardo, strutturandosi attorno a tre grandi assi semantici che si sovrappongono continuamente:
1- Il documentario commissionato da Enrico Mattei a Joris Ivens nel 1959 intitolato L'Italia non è un paese povero e pesantemente censurato dalla Rai (che lo mandò in onda nell’estate del 1960 con l’agghiacciante titolo Frammenti di un film di Joris Ivens). Dialogando con estratti dalla pellicola ivensiana, Il mio paese ripercorre a ritroso il viaggio del cineasta olandese risalendo la penisola da Sud a Nord in un ideale “quarantacinque anni dopo”.
2- Il viaggio di quasi 48 ore del pullman Sicilia-Germania carico di italiani che vanno all’estero poiché nel loro paese non hanno prospettive di lavoro: il tragitto del pullman fornisce l’occasione a Vicari di fare tappa in alcune delle regioni attraversate (Sicilia, Basilicata, Lazio, Toscana e Veneto) e di convertire la sosta in pausa di riflessione. Fotografie in movimento.
3- La presenza di personaggi-guida che introducono alla realtà socioeconomica locale: grazie all’alternanza di voci appartenenti a estrazioni sociali e livelli professionali diversi si creano dissonanze di enorme fertilità (come nella sezione veneziana, che mette a confronto il piccolo miracolo operaio dell’Interporto con i laboratori ipertecnologici del Petrolchimico di Marghera).
Ovviamente l’avvicendarsi di queste tre spine dorsali - soprattutto la decisione di dare la parola ai protagonisti delle realtà locali – produce sensibili variazioni di tono e registro, oscillando tra il nostalgico e il terrorizzato, l’entusiastico e il rassegnato, il retorico e il patetico (in questo senso la sezione pratese è secondo chi scrive quella più enfatica e declamatoria), ma ciò che sottrae Il mio paese alla deriva contenutistica (anticamera del ricattatorio) è esattamente il lavoro del cineasta: guardare. Vicari, che già nel modesto Velocità massima e nel non completamente disprezzabile L’orizzonte degli eventi aveva mostrato di sapersi svincolare dalla morsa del narrativo e osservare le cose attorno alla cinepresa, fa quello che vorremmo ogni cineasta facesse e che a nostro avviso costituisce il solo dovere del cineasta: esercitare lo sguardo, sapersi incantare di fronte alla misteriosa evidenza delle cose. Lo sguardo si fa interrogazione del/sul reale, principio di compenetrazione e riformulazione dell’apparenza: si tratta esattamente di quella “apertura di sguardo, disponibilità all’avventura del nuovo tempo” che il sociologo veneto Gianfranco Bettin segnala alla contemporaneità come rimedio alla paura dell’avvenire e come antidoto alla vecchiaia dell’Occidente. In un documentario sul lavoro Vicari fa il suo lavoro, insomma. Quello che ci piace e convince di più de Il mio paese è dunque questa consapevolezza di sguardo, questa capacità di guardare criticamente il reale senza appiattirsi sulla sua flagranza, lasciando alla visione la facoltà di pensare se stessa mentre si produce. Il farsi di un pensiero visivo. Senza seduzioni, senza arroganza: cinematograficamente.
